mercoledì 22 ottobre 2025
La to-do list di Trump segnava: Medio Oriente. E ora, nella speranza – si sta dimostrando sempre più flebile nelle ultime ore – che si tratti di un risultato finalmente duraturo, il tycoon ha velocemente posto un bel check su uno dei punti che più lo aiuteranno a definire il “sé percepito” agli occhi dei suoi nemici in Medio Oriente, in Cina e, soprattutto, in Russia.
È qui che torna il punto centrale della politica estera di Donald Trump, propugnato per tutta la campagna elettorale e divenuto faro di una diplomazia statunitense che navigava a vista: il ripristino della deterrenza (con le sue luci e le sue ombre) degli Stati Uniti. Missione compiuta, almeno per la Casa Bianca, e limitatamente a Iran e alleati. Ma, archiviato il cessate il fuoco a Gaza, l’attenzione di Trump è subito scivolata su un dossier altrettanto cruciale, questa volta in Europa: la guerra in Ucraina. Qui emerge la possibilità di riproporre nuovamente quella che molti osservatori hanno battezzato negli ultimi giorni la “formula Trump”, ovvero perseguire la deterrenza con diplomazia personale, minacce credibili (ma sempre reversibili) e una via di fuga narrativa che consenta agli Stati Uniti e agli alleati di rivendicare una “vittoria”, spendibile in casa. È un approccio politico più che procedurale: non rinnega la forza, ma punta a piegarla sul tavolo delle trattative.
Se la “formula Trump” tornerà davvero in auge lo farà con tutta probabilità durante il nuovo vertice con Vladimir Putin a Budapest, deciso dopo un precedente incontro talmente povero di risultati da spingere l’amministrazione a rivedere la strategia verso il presidente russo. Prova ne sia lo stravolgimento dell’organico che prenderà parte al summit: più round tecnici a basso livello rispetto ai colloqui in Alaska e un profilo diverso alla guida della delegazione statunitense. Non più l’inviato speciale Steve Witkoff, ma il Segretario di Stato Marco Rubio. Un segnale? Per Kiev e la stampa europea sì: vi leggono la volontà di affiancare alla scena leader‑to‑leader un lavoro diplomatico più strutturato, intravedendo una progressiva integrazione rispetto all’iniziale dominio della Presidential diplomacy. Ma tant’è, sarà Budapest a fugare ogni dubbio.
E così, sull’Air Force One – tra Gerusalemme e Il Cairo, in un nuovo giro di missioni ufficiali – il bastone e la carota viaggiano insieme. Da un lato, Trump non ha vincolato gli Stati Uniti a fornire missili a lungo raggio all’Ucraina, a fortiori i Tomahawk; dall’altro mantiene la minaccia sul tavolo, mentre si amplia la condivisione di intelligence con Kiev e si esercita pressione economica su partner rilevanti per Mosca. “Lasciamo che entrambi rivendichino la vittoria, sarà la storia a decidere!”, ha tuonato sui social dopo l’incontro con Volodymyr Zelensky. Il messaggio è duplice: offrire a Putin un’uscita onorevole e, al tempo stesso, raffreddare il campo di battaglia riducendo gli incentivi alla massimizzazione tattica.
La formula, tuttavia, non è priva di rischi. I critici temono che un nuovo vertice offra tempo alla Russia per consolidare le linee e logorare l’Ucraina. All’interno dell’amministrazione, alcuni notano un’asimmetria fra la pressione esercitata su Kiev e quella su Mosca. Daniel Fried, già assistente segretario di Stato per l’Europa, ha recentemente osservato con tono severo che “esistono strumenti per fare maggiore pressione sulla Russia dal punto di vista economico e militare – e gli Stati Uniti non li stanno di certo usando”. Sul versante analitico, Samuel Charap (RAND Corporation) ricorda che i negoziatori russi “privilegiano processo e diplomazia tradizionale”: senza un canovaccio operativo credibile, l’impazienza del mediatore rischia di diventare un boomerang. Dal lato euro‑atlantico, Shelby Magid (Atlantic Council) legge con attenzione le discussioni statunitensi sulla possibilità di fornire missili a lungo raggio, che “sembrano aver turbato Putin”.
Nel frattempo, sul fronte Nato, si intensificano le frizioni lungo il fianco nord‑orientale: intercettazioni aeree ravvicinate sul Baltico, disturbi Gps e pressione ibrida sul corridoio di Suwałki. In un quadro così complesso è essenziale applicare la formula con rigore, se vuole replicare i risultati cruciali raggiunti in Medio Oriente; e perché ciò avvenga l’establishment della Casa Bianca deve sapere fin da subito chi è il nemico e chi è l’alleato. Distinzione che è stata relativamente semplice in Medio Oriente (Trump ha sostenuto Benjamin Netanyahu fino in fondo, ha fatto capire a Hamas che rifiutarsi di negoziare avrebbe indebolito la sua posizione, non ha ceduto a false equivalenze morali sulle cause della guerra) e che sarà più complessa a Budapest, vista l’ambiguità del rapporto tra Trump e Putin, già da prima del vertice di Anchorage.
Il legame con Gaza non è solo di calendario. In Medio Oriente, l’amministrazione ha trasformato la deterrenza (anche indiretta) in architettura negoziale, proclamando un accordo mentre alcuni dettagli erano ancora in definizione. In Ucraina, la stessa logica richiede più prudenza: qui la controparte è un attore revisionista con capacità militari convenzionali rilevanti e un apparato diplomatico che valuta meticolosamente strategie e scenari precedenti. Va ricordato che la controparte di Marco Rubio sarà con ogni probabilità Sergej Viktorovič Lavrov, diplomatico con all’attivo 53 anni di servizio, di cui gli ultimi 21 alla guida della politica estera russa. Per questo il passaggio da Witkoff a Rubio ha un valore che va oltre i nomi: segnala che il leaderismo di Trump si accompagna, stavolta, a un lavoro di cucitura che mancava.
La domanda finale è di metodo: la formula è sostanza o teatro? Dipenderà da tre condizioni. Che la leva resti reale – quindi non si fermi nuovamente a meri annunci programmatici – e resti sempre modulabile nel tempo. Che l’Europa sia dentro il processo, non spettatrice, perché sanzioni, ricostruzione e garanzie di sicurezza passano anche da Bruxelles e dalle principali capitali. E che Kiev percepisca il percorso come un rafforzamento della propria posizione, non come una minaccia alla sua integrità nazionale: l’equilibrio fra deterrenza e diplomazia è accettabile solo se non diventa un odioso pretesto di un congelamento a vantaggio dei più forti.
Trump si definisce “presidente mediatore”. La mediazione, da questa parte dell’Atlantico, non si misura tanto dalla foto quanto dal protocollo: nelle regole di ingaggio, nei controlli sul campo, nelle clausole di reversibilità. Se a Budapest prevarranno i risultati concreti sulla scenografia, la formula Trump avrà una chance di chiudere davvero una guerra che l’Europa non può permettersi di trascinare all’infinito. Se a prevalere dovesse essere nuovamente la scenografia, il rischio è che anche questa volta la storia – quella vera – decida per tutti.
di Flavio Pierucci