Perché non è stato un genocidio

venerdì 17 ottobre 2025


Esistono diversi modi possibili per provare a descrivere con l’uso delle parole il terribile dramma del popolo palestinese a Gaza: massacro, orrore, eccidio, strage. Ma tutti, evidentemente, poco idonei per essere accolti di buon grado dal mainstream. O meglio, non sufficientemente adeguati per costruire quel perfetto contraltare valido per certificare l’avvenuto passaggio di Israele dallo status di vittima a quello di carnefice.

Ciò che serviva, invece, erano termini di paragone chiari e identificabili che non lasciassero alcuno spazio a dubbi o interpretazioni di parte nell’opinione pubblica. Che si rispolverassero espressioni come “soluzione finale” o “campi di concentramento”, e si accostassero lo Stato di Israele al Terzo Reich, le forze di difesa dell’Idf alle Schutzstaffel, e la figura del primo ministro, Benjamin Netanyahu, a quella del hrer del Nazismo. Occorreva, insomma, che si parlasse apertamente di “genocidio”, sebbene, nei fatti, non fosse necessario niente di tutto ciò, perché la vita prematuramente spezzata anche di un solo bambino rappresenterebbe già di per sé un’umiliante sconfitta per l’umanità intera e per chiunque dovesse macchiarsi di una simile colpa. Del resto, non giovano grandi esperti o speciali commissioni d’inchiesta per rendersi conto che la reazione di Israele al vile attacco subito il 7 ottobre di due anni or sono sia stata eccessiva, inumana e spropositata sotto ogni punto di vista. Innegabile. E ciò, a prescindere dalle posizioni, dai valori o dalla fede politica di ciascuno.

Si presti però attenzione: perché riconoscere, come d’altronde è giusto che sia, le atrocità commesse a Gaza dall’esercito israeliano in risposta all’eccidio del 7 ottobre non equivale necessariamente a sposare una tesi, quella genocidaria, che, al contrario, non sembrerebbe essere suffragata dalle evidenze sostenute con forza dai suoi fautori. La definizione di genocidio fornita dalle Nazioni unite, basata sulla Convenzione del 1948, include atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Nello specifico, gli atti di cui sopra comprendono non soltanto l’uccisione di membri del gruppo, ma anche il causare lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale, l’imporre condizioni di vita intese a provocarne la distruzione, l’imporre misure per impedire le nascite e il trasferimento forzato di bambini del gruppo. Non si tratta, pertanto, di voler negare l’innegabile, ovverosia la brutale uccisione, da parte delle forze dell’Idf, di migliaia di civili palestinesi, stante il fatto che provocare lesioni o praticare misure atte a distruggere intenzionalmente un determinato gruppo basterebbe già di per sé a supportare la tesi del genocidio.

Intenzionalmente, appunto. È proprio questo il passaggio cruciale che fa crollare in maniera inesorabile la teoria genocidaria. Per sua stessa definizione, il genocidio richiede infatti l’intenzione specifica e premeditata di distruggere un determinato gruppo etnico, razziale o religioso che sia. Presupposto che, nel caso in questione, sembrerebbe invece mancare, essendo quella di Israele una risposta, seppur inaccettabile e sproporzionata, ad un attacco precedentemente subito. Il genocidio non è infatti da considerare come un mero fatto, bensì come un vero e proprio progetto concepito preventivamente, come il prodotto di una determinata intenzione sterminazionista non quantificabile da un punto di vista numerico. Accanto all’assenza di tale presupposto di natura formale, esiste inoltre una questione sostanziale che tende ulteriormente a sconfessare la tanto caldeggiata teoria del genocidio. All’interno dei confini dello Stato ebraico vivono attualmente circa due milioni di palestinesi, i cosiddetti “arabi israeliani”, che rappresentano il gruppo minoritario di gran lunga più numeroso, pari a oltre il 20 per cento della popolazione israeliana. Lo stesso Stato di Israele è dunque fondato su un modello di civile convivenza che include al suo interno anche una consistente fetta di quel medesimo gruppo etnico, che oggi rappresenta oltre un quinto della popolazione, oggetto della discutibilissima tesi genocidaria.

Con ciò, si badi bene, non s’intende in alcun modo giustificare le deplorevoli condotte delle forze israeliane nella martoriata Striscia. Gli abusi israeliani perpetrati a Gaza, del resto, sono reali e oggettivi, e, al contempo, ingiustificabili. Altrettanto abusato, tuttavia, è stato il lessico propagandisticamente utilizzato in questi concitati mesi per costruire un’efficacissima analogia tra Shoah e genocidio palestinese, servita principalmente a riportare gli ebrei dalla parte sbagliata della storia, incantenandoli ad un triste destino: interpretare oggi, essi stessi, l’ingrato ruolo dei nazisti.


di Salvatore Di Bartolo