Gli ebrei e la Diaspora

giovedì 9 ottobre 2025


Da oltre 75 anni, lo Stato di Israele è orgoglioso di proteggere gli ebrei di tutto il mondo oltre che i propri cittadini. L’attuale ondata di antisemitismo, tuttavia, rivela il fallimento di questa duplice promessa e obbliga i leader della Diaspora ad adottare un nuovo atteggiamento assertivo nei confronti dei distratti decisori politici di Gerusalemme.

La Legge Fondamentale dello Stato ebraico sancisce che il benessere della Diaspora è una priorità: “Lo Stato si impegnerà a garantire la sicurezza dei membri del popolo ebraico e dei propri cittadini in pericolo a causa del loro essere ebrei”. Inoltre, la Legge promette di “preservare il patrimonio culturale, storico e religioso del popolo ebraico tra gli ebrei nella Diaspora”.

Non sono parole vuote. In passato, Gerusalemme ha spesso mantenuto queste promesse. Alcuni sforzi sono stati di piccola portata, come quando il Parlamento israeliano ha esercitato pressioni sui governi europei affinché non vietassero la carne kosher. Altri sono stati più grandi, come quando i diplomatici israeliani hanno garantito il diritto degli ebrei “in cattività” di emigrare da Stati ostili, in particolare dall’Unione Sovietica e dalla Siria. Più ambiziosamente, aerei israeliani hanno soccorso ebrei “in difficoltà” da Paesi come Yemen, Iraq ed Etiopia, trasportandoli in salvo a Sion. In breve, l’esistenza di Israele ha rafforzato la Diaspora.

La situazione però è cambiata quando i palestinesi hanno sostituito gli Stati arabi come principali nemici di Israele. Così facendo, le narrazioni anti-Israele hanno suscitato maggior interesse in Occidente. Se le invettive del tiranno iracheno Saddam Hussein avevano un appeal minimo, la modella Bella Hadid e la band musicale dei Kneecap raggiungono un vasto pubblico, mentre i politici che odiano Israele salgono alla ribalta e i principali media simpatizzano con il negazionismo palestinese. La campagna “Free Palestine”, gli accampamenti di protesta nelle università e i boicottaggi di Israele sono il risultato della percezione, per quanto inesatta, che lo Stato terrorista di Israele occupi, opprima, tormenti e sottoponga i palestinesi a pulizia etnica nel perseguimento dei suoi obiettivi imperialisti e genocidi.

Un segno sconcertante è stata la mossa senza precedenti di un Primo Ministro democraticamente eletto (della Spagna) che ha accusato un’altra democrazia (Israele) di genocidio. Quasi altrettanto sorprendente è stata la stessa accusa mossa da un senatore ebreo statunitense (Bernie Sanders).

Più in generale, un recente sondaggio della Quinnipiac University ha rilevato che, a causa della guerra a Gaza, il sostegno a Israele negli Stati Uniti tra gli elettori registrati è sceso a livelli senza precedenti, attestandosi addirittura leggermente al di sotto di quello dei palestinesi. Ancora più sorprendente è il fatto che metà del campione, e una percentuale identica in un sondaggio Harvard/Harris, ritiene che Israele abbia commesso un genocidio. Lo stesso sondaggio Harvard/Harris rileva anche che i giovani tra i 18 e i 24 anni sostengono Hamas rispetto a Israele con un rapporto del 60 per cento contro il 40 per cento.

Le promesse della Legge Fondamentale sono svanite quando l’antisionismo è sfociato nell’antisemitismo. Le azioni di Israele sono ora oggetto di condanna diffusa proprio nelle democrazie in cui vive circa il 98 per cento degli ebrei della Diaspora. Se Israele e i palestinesi non fossero costantemente al centro dell’attenzione dei media, l’ondata di antisemitismo non imperverserebbe dalla Nuova Zelanda al Canada fino alla Francia. Nel suo report annuale degli episodi di antisemitismo negli Stati Uniti, l’Anti-Defamation League, la Lega Antidiffamazione, ha riscontrato che nel 2024, per la prima volta, la maggior parte dei casi faceva esplicito riferimento a Israele o al sionismo.

Per quanto identici nel risultato, i due “ismi” hanno origini distinte: l’antisionismo si concentra sulle presunte azioni negative di Israele, l’antisemitismo sui presunti tratti negativi degli ebrei. Pertanto, è fondamentale sottolineare che l’ondata di sentimenti antiebraici deriva principalmente dall’ostilità verso Israele, non verso gli ebrei della Diaspora. Popolazioni tranquille che sono poco o affatto ostili vengono associate a Israele e pagano il prezzo dei suoi presunti peccati.

Poiché gli occidentali non possono colpire Israele o i suoi interessi all’estero, prendono principalmente di mira obiettivi facili nel loro territorio, come ristoranti koshersinagoghe, come è accaduto di recente in Inghilterra, oppure aggrediscono singoli ebrei, che marciano a favore di Israele e degli israeliani, frequentano l’università, indossano una kippah, o viaggiano su un autobus. Così gli ebrei della Diaspora sono diventati vittime collaterali della guerra a Gaza.

Le autorità israeliane sono ovviamente consapevoli di questo problema, ma, dovendo affrontare una guerra su sette fronti e la detenzione di ostaggi a Gaza, la difficile situazione degli ebrei della Diaspora è inevitabilmente meno urgente per loro rispetto all’eliminazione di Hamas. Inoltre, le aspre dispute politiche interne mettono ulteriormente in secondo piano le preoccupazioni relative ai correligionari che vivono in democrazie.

Tuttavia, guardare alla guerra di Israele contro Hamas da questa prospettiva trasforma il ruolo degli ebrei della Diaspora da fastidiosi osservatori senza alcun interesse in gioco a partner con una posta in gioco molto alta. La responsabilità di difendere i propri interessi ricade quindi sugli ebrei della Diaspora, e soprattutto sull’ebraismo statunitense che prevale a livello numerico, organizzativo e di risorse. Questo processo prevede tre fasi.

In primo luogo, bisogna affrontare il fatto spiacevole che le azioni di Israele oggi non “garantiscono il benessere” della Diaspora, ma lo mettono a repentaglio. Un recente sondaggio condotto tra studenti ebrei di tutto il mondo rivela che il 78 per cento nasconde la propria identità religiosa e l’81 per cento cela il proprio sostegno a Israele.

In secondo luogo, occorre respingere il vecchio adagio israeliano secondo cui gli ebrei della Diaspora tengono la bocca chiusa e il portafoglio aperto. Yitzhak Rabin non fu l’unico ad avere preso questa posizione quando la espresse in veste di Primo Ministro nel 1995, ammonendo gli americani che si opponevano ai suoi sforzi per raggiungere un accordo di pace con i palestinesi. “Non hanno il diritto di intervenire nelle decisioni che il popolo di Israele ha preso, in modo molto democratico, sulla direzione da seguire quando si tratta di guerra e pace. Hanno il diritto di parlare con noi, ma non di agire, come americani, contro la politica del governo di Israele”, disse. E aggiunse: “Chi non ha figlie o figli che prestano servizio nell’esercito [israeliano] non ha il diritto di intervenire o agire su questioni di guerra e pace”. Anche se questa affermazione era legittima trent’anni fa, oggi non ha più validità, quando le azioni di Israele mettono in pericolo il benessere e la sicurezza della Diaspora.

In terzo luogo, fate pressione sul governo israeliano e pretendete che, quando prende decisioni cruciali, tenga conto delle voci della Diaspora. Sebbene gli ebrei della Diaspora non possano aspirare a posti ufficiali nel governo o a veti veri e propri sulle politiche israeliane, possono e devono difendere i propri diritti. Ciò implica meno deferenza verso i genitori delle “figlie o dei figli che servono nell'esercito”. Il processo inizia con la persuasione morale. Se questa fallisce, si passa a tattiche più dure. “Ascoltateci, prestate attenzione alle nostre preoccupazioni, o prenderemo le distanze dalle azioni israeliane, forse addirittura le rifiuteremo”. Una dichiarazione del genere attirerà senza dubbio l’attenzione di Gerusalemme e metterà in primo piano le esigenze degli ebrei della Diaspora.

(*) Tratto dal Jta

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Daniel Pipes (*)