mercoledì 8 ottobre 2025
Terminato il mandato sulla Palestina e l’esodo forzato − fatto conosciuto come Nakba − di oltre settecentomila arabi, la guerra arabo-israeliana del 1948 creò una situazione paradossale, vale a dire la permanenza di una minoranza araba dentro il neo-costituito Stato ebraico d’Israele: si trattava di quasi un milione e mezzo di arabi palestinesi che avevano optato per rimanere in quel territorio e divenire cittadini israeliani, pur continuando ad essere legati emotivamente, culturalmente e religiosamente al mondo arabo esterno, il che si risolveva in una grave crisi di identità e di fedeltà.
Allo stato attuale, i circa due milioni di così detti “palestinesi dell’interno” o “arabi israeliani”, in possesso della cittadinanza israeliana, costituiscono circa il 20 per cento − all’inizio ammontavano al 18 per cento − della popolazione totale, una minoranza peraltro distribuita in modo eterogeneo, in quanto include gli arabi mussulmani, che rappresentano la stragrande maggioranza, ma anche una piccola comunità di drusi ed una di arabi cristiani, ammontante a circa il 15 per cento del totale. Ma al fine di poter pervenire ad una qualche attendibile ipotesi di soluzione della drammatica vicenda, il che, allo stato, appare francamente irrealizzabile, occorrerà ripercorrere, seppur succintamente, le tappe dell’arduo, se non proprio impossibile, processo di integrazione di siffatta minoranza nello Stato ebraico in Palestina.
Alla fine degli anni Novanta, la complessa questione delle relazioni tra ebrei ed arabi residenti in territorio israeliano era diventata sempre più critica, soprattutto alla luce dei successivi sviluppi politici dal 1948 in poi, posto che, prima di allora, non ci si era preoccupati a sufficienza della possibilità che il futuro Stato d’Israele potesse o dovesse accogliere una minoranza araba; infatti, il movimento sionista non aveva mostrato particolare interesse per la questione, ma in seguito, data la consistenza della minoranza araba come indiscutibile realtà di cui tener conto, Israele era stato comunque costretto a formulare, ancorché tra perplessità e tentennamenti vari, una politica ad hoc.
Comunque, già la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, rappresentava uno sforzo per sintetizzare l’aspirazione del sionismo e la proiezione verso la democrazia liberale di stampo occidentale, tant’è che i principi di eguaglianza e giustizia erano già in essa compendiati.
In pratica, però, la politica nei confronti della minoranza araba era caratterizzata da elementi di contraddizione in quanto, se da un lato l’assoluta esigenza di sicurezza del nuovo Stato considerava la minoranza araba come potenziale nemica, dall’altro lato, in base ai dogmi della democrazia liberale, era altresì avvertita la necessità della sua integrazione nella vita del Paese.
Cosicché, veniva intrapresa una politica di “israelizzazione”, con la concessione della cittadinanza israeliana, il diritto di voto, la concessione dello status di lingua ufficiale all’arabo: insomma, una sorta di rassegnata coesistenza, ciò che sostanzialmente perdurò fino alla guerra arabo-israeliana del ’67, allorquando mutò drammaticamente la scena con il riaffiorare delle radici palestinesi, che ebbe come effetto la riunificazione degli arabi israeliani con i fratelli palestinesi nei territori. Peraltro, siffatto processo di “palestinizzazione” aveva ulteriormente a potenziarsi a seguito della guerra del Kippur del 1973 e all’apparizione della Organizzazione per la liberazione della Palestina, talché il suo leader, Yassir Arafat, acquistava un sempre maggiore ascendente sugli arabi israeliani, che pertanto esprimevano il loro appoggio all’Olp e all’autodeterminazione palestinese, ciò che, di certo, si poneva in contraddizione con il processo di integrazione nella società israeliana.
Pertanto, appunto negli anni Settanta, il processo integrativo finiva per frantumarsi, con l’affermarsi di una nuova strategia − in sostituzione del quietismo che, in buona sostanza, fino ad allora aveva contraddistinto la minoranza arabo israeliana − basata sulla ferma volontà di raggiungere una piena eguaglianza civile, che aveva a risolversi in proteste di massa, dimostrazioni e scioperi.
Proprio siffatta astrusa situazione, che si protraeva anche per buona parte del successivo decennio, portava dritto dritto, nel dicembre 1987, alla sollevazione nota come prima intifada: una vera e propria rivolta popolare in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Israele stesso (a Gerusalemme Est), con il coinvolgimento di molti civili. Tutto ciò aveva fine con gli accordi di Oslo nell’agosto 1993 e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), come pure a seguito di quelli del mese di settembre Israele-Olp, che avviava più proficue relazioni tra ebrei ed arabi in Israele.
Tuttavia, il riconoscimento dell’Olp, sebbene legittimasse i diritti dei palestinesi, non impediva ad essi di seguitare a identificarsi con l’Autorità Palestinese, tant’è che non esitavano a mobilitarsi in vari casi, come per il massacro di Hebron nel 1994 e per gli scontri di Gerusalemme nel 1996.
Ad ogni buon conto, per tutti gli anni Novanta l’identità palestinese degli arabi israeliani, stante la legittimazione dell’esistenza della Nazione palestinese anche a seguito degli incontri che Rabin e poi Netanyahu avevano avuto con Arafat, non implicava necessariamente un atteggiamento di infedeltà o di non identificazione con lo Stato di Israele. In special modo il governo Rabin, insediatosi nel 1992, faceva molto per favorire una più intensa integrazione, ma la situazione incomincerà a deteriorarsi sotto il governo del Likud insediatosi nel ’96, cosicché riprendeva vigore il Movimento fondamendalista islamico di Israele, peraltro già sussistente sin dagli anni Settanta, ciò che, a parte la lotta per l’eguaglianza a livello materiale, rendeva più ardua quella a livello politico-nazionale.
Insomma, intellettuali e politici arabi andavano convincendosi sempre più circa una sostanziale incompatibilità tra le due fisionomie di Israele, cioè il fatto di essere, da una parte, uno Stato del popolo ebraico e, dall’altra parte, una democrazia atta a promuovere l’uguaglianza per tutti i cittadini; in conseguenza, da parte di costoro si sosteneva che, stante la palese contraddizione inerente alla realtà israeliana, fino a quando Israele fosse rimasto uno Stato ebraico, l’integrazione e l’eguaglianza degli arabi sarebbe stata irraggiungibile. In ogni caso, l’alternativa non avrebbe potuto essere se non una via intermedia tra integrazione e secessione, atteso che Israele non poteva essere spogliato dei suoi simboli ebraico-sionisti a favore di una minoranza, che, di certo, non poteva nutrire la pretesa di imporre al Paese una transizione così gravosa e idealmente insostenibile.
Siffatta torbida situazione portava, nel settembre del Duemila, ad un violento riesplodere del confronto arabo-palestinese, una seconda intifada, che, iniziando da Gerusalemme − a seguito dell’ingresso di Sharon nel complesso della Spianata delle Moschee − si estese a tutta la Palestina.
Dopo il ritiro dei coloni ebrei nel 2005, la vittoria di Hamas nel 2006, la secessione dall’Anp di Abu Mazen, la guerra del 2006-2007 condotta contro il Libano, quella del 2008-2009 contro i palestinesi di Hamas nella Striscia di Gaza, quella del 2012 − una campagna di otto giorni nella stessa Striscia − e il nuovo assoggettamento di Hamas nel 2017 all’Anp, guidata dal 2015 − anno in cui era scoppiata una nuova violenta sommossa, definita “l’intifada dei coltelli” − da Mahmoud Abbas, la definitiva soluzione della tragica questione dell’integrazione della minoranza arabo-israeliana nello Stato ebraico quasi certamente oggidì deve considerarsi rinviata sine die, quando non proprio seppellita del tutto. Ciò anche e soprattutto a seguito della fase iniziata il 7 ottobre con l’azione terroristica di Hamas, che non poteva non avere una risposta da Israele. La presa degli ostaggi implicava necessariamente una reazione, così come le Torri Gemelle avevano implicato per forza la guerra in Afghanistan. Hamas sapeva dunque di esporre il suo feudo − un campo di concentramento a cielo aperto di milioni di palestinesi, sotto le cui case aveva costruito i suoi fortilizi da cui attaccava Israele con i missili − all’offensiva israeliana e alla presumibile invasione; sapeva altresì che avrebbe reso assi più arduo e pressoché impossibile l’integrazione − condannando in tal modo all’alienazione circa due milioni di individui − della minoranza araba nello Stato di Israele, un disegno già di per sé estremamente complicato soprattutto dopo il varo della Legge fondamentale israeliana del 2018 sullo Stato-nazione, che aveva accentuato vieppiù il carattere ebraico dello Stato.
Quell’attacco terroristico ha avviato, pertanto, un nuovo corso contraddistinto da una crescente pressione sui “palestinesi dell’interno”, ai quali viene chiesto, con sempre maggiore insistenza, di dimostrare una più fattiva lealtà nei confronti dello Stato di Israele, talché ogni atto di solidarietà con i palestinesi di Gaza viene repressa con durezza: insomma, i palestinesi di Israele hanno finito per essere visti come una minoranza pericolosa e sleale, una specie di nemico “entro le mura”, col rischio di scatenare una seconda Nakba o una nuova violenta intifada.
Di certo, alla luce di siffatti perniciosi sviluppi, in modo fondato sembra essere definitivamente tramontata la vecchia idea che vedeva gli arabi israeliani come un ponte per la pace, né, allo stato attuale la creazione di un autonomo Stato palestinese − una costruzione al momento solo surrettizia − risolverebbe l’immane problema dell’integrazione, che probabilmente dovrà innanzitutto ripartire anche da un ripensamento della stessa identità nazionale d’Israele. Continuerà Israele a considerarsi soprattutto uno Stato ebraico-sionista e in che modo potrà riconciliare siffatto carattere con i valori liberal-democratici? Questo ed altri inquietanti interrogativi di certo incupiscono il futuro: forse una tenue speranza di pace potrebbe venire dall’opera degli arabi cristiani di Palestina, i quali non mirano a caricare di rivendicazioni identitarie le proprie aspirazioni anche politiche.
di Francesco Giannubilo