Orso imbalsamato o “tigre di carta”?

martedì 30 settembre 2025


Donald Trump ha definito la Russia una “tigre di carta”. Con questa espressione, il Presidente degli Stati Uniti ha messo in evidenza il fallimento militare del Cremlino, che in tre anni e mezzo non è riuscito a piegare la resistenza ucraina. Secondo Trump, “una vera potenza militare” avrebbe liquidato la questione in meno di una settimana; Mosca, invece, è ancora impantanata in un conflitto che ha smontato pezzo dopo pezzo l’aura di invincibilità tanto cara a Putin.
Il Presidente degli Stati Uniti ha sottolineato che Kyiv si trova oggi “in posizione di combattere e vincere, riportando l’intero Paese alla sua forma originale”. Un’affermazione che riflette la realtà di un’Ucraina sempre più capace di infliggere colpi profondi e di una Russia che appare come un gigante goffo, incapace di tradurre la propria propaganda in risultati concreti. La campagna di invasione, che nelle intenzioni doveva essere rapida e decisiva, si è trasformata in una dimostrazione mondiale di inefficienza militare.

I numeri sono impietosi: in tre anni di guerra, la Russia ha guadagnato meno dell’1 per cento del territorio ucraino, perdendo nel frattempo centinaia di migliaia di uomini. Per riempire i vuoti, il Cremlino ha dovuto promettere stipendi da capogiro ai nuovi arruolati ed è arrivato persino a chiedere manodopera militare alla Corea del Nord. Così il mito della “grande armata russa” si riduce alla triste immagine di un Paese che arranca e che mendica aiuto dai pochi regimi rimasti disposti a sostenerlo.
Intanto, Kyiv ha intensificato i suoi attacchi contro raffinerie, oleodotti e infrastrutture energetiche ben dentro i confini russi, causando problemi alle esportazioni e code infinite ai distributori. Il sistema difensivo russo, tanto osannato dalla propaganda, si rivela incapace di coprire un territorio vastissimo e vulnerabile. Nel Mar Nero, la marina russa è stata costretta a ritirarsi; nei cieli, la supremazia aerea resta un miraggio. La presunta “seconda potenza militare del mondo” appare sempre più come un esercito che vive di slogan e parate, ma che non riesce a tradurre la sua forza numerica in risultati tangibili sul campo.

Sul fronte internazionale, l’isolamento è evidente. La Russia, che un tempo si proponeva come attore indispensabile in ogni crisi globale, è oggi relegata a comprimaria persino in regioni dove storicamente deteneva un’influenza determinante, dal Caucaso al Medio Oriente. Paesi che un tempo temevano o corteggiavano Mosca guardano altrove, rivolgendosi a partner più affidabili. La tanto decantata alleanza con la Cina appare sempre più squilibrata: Pechino compra gas e petrolio a prezzi stracciati, mentre il Cremlino si accontenta di recitare la parte del fedele vassallo.

Nemmeno sul piano economico la situazione è rosea. Le sanzioni occidentali hanno inciso profondamente, costringendo la Russia a reinventarsi come “stazione di servizio dell’Asia”, dipendente dalle esportazioni energetiche a prezzi sempre più scontati. L’industria civile arranca, i beni di consumo scarseggiano, e persino i settori ad alta tecnologia – fondamentali per l’apparato bellico – mostrano falle enormi. La guerra dei droni lo dimostra: mentre Kyiv riceve tecnologie avanzate dall’Occidente e sviluppa soluzioni proprie, Mosca è costretta a inventarsi sempre nuovi espedienti per procurarsi i microchip indispensabili ai suoi sistemi militari, spesso ricorrendo a canali paralleli e a triangolazioni che ne evidenziano la crescente vulnerabilità tecnologica.
In questo scenario, le parole di Trump sono state percepite come una ferita bruciante dal Cremlino. I propagandisti filogovernativi hanno alzato la voce, nel tentativo di coprire con il rumore la sostanza dell’accusa. Il portavoce Dmitry Peskov ha provato a cavarsela con una battuta: “La Russia non è una tigre di carta, è un orso. E non esistono orsi di carta”. Una battuta che suona come un’ammissione involontaria: quando si arriva a discutere di zoologia per difendere un esercito in difficoltà, significa che gli argomenti veri sono finiti da un pezzo.

Putin, questa volta, ha scelto il silenzio. Ma il silenzio dice più di tante dichiarazioni. Perché il vero colpo non riguarda soltanto il piano militare, ma quello del prestigio: la sua “operazione speciale” doveva rilanciare la Russia come superpotenza temuta e rispettata; ha invece messo in mostra un esercito mediocre, una strategia fallimentare e un Paese che sopravvive più di apparenza che di sostanza. L’immagine di una Russia invincibile, capace di piegare chiunque, è stata sostituita da quella di un colosso fragile, costretto a stringere accordi con regimi marginali e a esibirsi in ridicole dichiarazioni propagandistiche per convincere prima di tutto se stesso.
La “grande Russia” di Putin, dunque, esiste solo nei discorsi ufficiali e nei talk show di regime. Nella realtà dei fatti, la guerra in Ucraina ha messo a nudo le crepe di un sistema che si regge sulla paura interna e sulla retorica esterna. Se davvero la Russia fosse l’orso potente che Peskov descrive, non avrebbe bisogno di giustificarsi a colpi di metafore animali, né di trascinarsi in un conflitto interminabile senza vittorie significative. L’immagine della tigra di carta, per quanto scomoda, calza perfettamente: un’entità rumorosa, minacciosa, ma sostanzialmente fragile, che più si agita più rivela la propria inconsistenza.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza


di Renato Caputo (*)