Una luce alla fine del tunnel

lunedì 29 settembre 2025


Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu concluderà la campagna militare a Gaza il momento segnerà una svolta nel conflitto, ma anche l’inizio di una nuova fase nella diplomazia internazionale. Netanyahu sarà molto probabilmente invitato alla Casa Bianca, dove gli Stati Uniti faranno pressione su Israele affinché elabori una soluzione a lungo termine per la questione palestinese. Una visita che creerà pressione non solo su Israele, ma anche sui suoi vicini e sulla comunità internazionale, che saranno tutti costretti a considerare quale tipo di futuro si possa realisticamente costruire sia per gli israeliani che per i palestinesi. Guardando al contesto regionale diventa chiaro che: gli stati arabi rimangono profondamente riluttanti ad assumersi la responsabilità della popolazione palestinese. Nessun Governo arabo ha mostrato la volontà di ospitare permanentemente i palestinesi di Gaza o della Cisgiordania. L’Egitto ha schierato tre brigate meccanizzate per impedire gli attraversamenti di massa nel Sinai. La sua leadership teme non solo il cambiamento demografico, ma anche la possibilità di importare instabilità e militanza. La Giordania ha adottato una linea ferma.

Re Abdullah ha ripetutamente affermato che non accetterà un nuovo afflusso di palestinesi, ricordando le violenze del passato, in particolare il trauma del Settembre nero del 1970, quando il conflitto tra lo Stato giordano e le fazioni palestinesi portò a spargimenti di sangue e instabilità. La lezione è semplice: la Giordania non vuole ripetere la storia. Quando si cercano soluzioni alla crisi odierna, è utile guardare indietro. Esistono dei precedenti. Quando i palestinesi hanno dovuto affrontare la sconfitta militare e l’espulsione, si sono trovate alternative al di fuori della zona di conflitto immediata. Un esempio è stata l’evacuazione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e del suo leader, Yasser Arafat, in Tunisia nel 1982, dopo l’invasione israeliana del Libano. La Tunisia, geograficamente distante dal cuore del conflitto, ha offerto un rifugio temporaneo in cui la leadership dell’Olp ha potuto riorganizzarsi e proseguire le sue attività politiche, pur rimanendo lontana dal confronto militare diretto con Israele. La Tunisia potrebbe svolgere un ruolo simile oggi? L’idea, sebbene non ancora apertamente discussa nella diplomazia tradizionale, non è del tutto improbabile.

La Tunisia ha recentemente ristabilito i legami con l’Iran, il che suggerisce la sua disponibilità a dialogare con gli attori coinvolti nella questione palestinese. In teoria, questo potrebbe aprire la strada a un accordo negoziato in cui a un numero limitato di membri di Hamas – forse duemila o tremila combattenti, insieme alle loro famiglie – potrebbe essere concesso rifugio sul suolo tunisino. Questa non sarebbe una soluzione permanente alla questione palestinese, ma potrebbe fungere da meccanismo a breve termine per de-escalation del conflitto a Gaza, rimuovendo la leadership più militante dal teatro di guerra immediato. Dal punto di vista di Israele, un simile accordo potrebbe essere presentato come una vittoria decisiva. Rimuovendo fisicamente la leadership di Hamas da Gaza, Israele non solo indebolirebbe la struttura di comando dell’organizzazione, ma creerebbe anche l’opportunità di introdurre nuovi assetti di governance magari sotto la supervisione di attori internazionali o di un’Autorità nazionale palestinese riformata. Per gli Usa, questo risultato rappresenterebbe un progresso: verso la stabilizzazione della situazione e la creazione di spazio per rinnovati negoziati politici. Nessuna soluzione è priva di nuovi rischi. Per l’Europa, in particolare per l’Italia, il trasferimento dei quadri di Hamas in Tunisia potrebbe creare nuove sfide, la Tunisia si trova a breve distanza dalle coste italiane.

Negli ultimi anni, i flussi migratori dal Nord Africa hanno già messo a dura prova le risorse e i sistemi politici. Se i membri di Hamas e le loro reti dovessero stabilirsi in Tunisia, potrebbero vedere nell’immigrazione irregolare non solo una via logistica, ma anche un potenziale modello di business. Le reti di trafficanti nel Mediterraneo generano già profitti sostanziali. Per un’organizzazione militante che si trova in isolamento finanziario, sfruttare la tratta di esseri umani potrebbe diventare un’attraente fonte di reddito. Pertanto, quella che inizialmente potrebbe apparire come una soluzione parziale al conflitto israelo-palestinese potrebbe, paradossalmente, generare un nuovo livello di insicurezza per l’Europa. L’Italia, data la sua vicinanza geografica, si troverebbe in prima linea nello sviluppo di questo tipo. A Roma dovrebbero valutare non solo le dimensioni diplomatiche e umanitarie di un accordo tunisino, ma anche l’impatto sulla sicurezza nazionale e sulla politica interna. La ricerca della pace in Medio Oriente è sempre stata caratterizzata dalla complessità. Raramente esistono soluzioni perfette: solo compromessi, sgarri e misure temporanee che mirano a guadagnare tempo e ridurre la violenza. Il possibile trasferimento dei membri di Hamas in Tunisia, sebbene tutt’altro che ideale, potrebbe rappresentare uno di questi passi pragmatici.

Non risolverebbe la questione palestinese. Non affronterebbe le lamentele di fondo di milioni di palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Ma potrebbe rimuovere alcuni degli ostacoli più immediati ai negoziati per il cessate il fuoco e aprire una fragile strada verso il dialogo. La comunità internazionale deve riconoscere che il conflitto israelo-palestinese non può essere risolto solo con mezzi militari. Anche se Hamas venisse indebolito o scacciato, le aspirazioni politiche del popolo palestinese rimarrebbero. Se queste aspirazioni venissero ignorate, alla fine emergeranno nuovi movimenti militanti per colmare il vuoto. Al contrario, se le potenze regionali e globali riuscissero a trovare un modo per combinare accordi di sicurezza con processi politici credibili, allora forse – solo forse – potrebbe apparire una vera luce alla fine del tunnel. Per Israele, il Stati Uniti, i paesi arabi e l’Europa, i prossimi mesi saranno decisivi. Che intervenga la Tunisia o un altro attore, la sfida principale sarà bilanciare le preoccupazioni immediate per la sicurezza con una visione politica a lungo termine. In caso contrario, si rischia di ripetere il ciclo di conflitti che caratterizza la regione da generazioni.

 (*) Società Libera


di Richi Sospisio (*)