Perché la Cina non è più comunista: un equivoco da dissolvere

mercoledì 17 settembre 2025


Il sistema politico ed economico della Cina contemporanea sfugge a classificazioni immediate. Se da un lato il Partito comunista continua a presentarlo come “socialismo con caratteristiche cinesi”, dall’altro è difficile non riconoscere come esso si sia allontanato radicalmente dal comunismo classico teorizzato da Karl Marx, applicato da Lenin e portato avanti da Mao Tse-tung. Per Marx ed Friedrich Engels sia la dittatura del proletariato che il comunismo implicavano l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Lenin, pur introducendo insieme a Nikolaj Bucharin temporanee aperture con la Nuova politica economica (Nep), poi affossata da Stalin, ribadì che il cuore del sistema doveva restare il dominio dello Stato sui settori fondamentali. Mao, fedele a questa impostazione, mantenne fino alla sua morte una linea rigidamente anticapitalista, ammonendo a non dimenticare mai la lotta di classe e legittimando così la collettivizzazione integrale. La svolta arrivò con Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta. Il suo celebre motto, “non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda i topi”, sintetizza un pragmatismo che mise in secondo piano l’ortodossia ideologica per dare priorità ai risultati economici. Le riforme di apertura introdussero le imprese private, attrassero capitali stranieri e crearono zone economiche speciali. La Cina imboccò così la strada di un’economia ibrida, nella quale le imprese private producono la maggior parte della ricchezza e dell’occupazione, mentre quelle statali mantengono il controllo dei settori strategici sotto la regia del partito.

Guardando al rapporto tra lo Stato e le imprese private, la Cina di oggi sembra assomigliare più ai regimi fascista e nazista che non al comunismo originario. In Italia e Germania, tra gli anni Venti e Quaranta, la proprietà privata dei mezzi di produzione non fu abolita, ma integrata negli obiettivi dello Stato. Le grandi industrie restavano formalmente autonome, ma i loro margini di azione erano determinati dalla logica dell’autarchia, dal riarmo e dall’espansione imperialista. In Cina la logica è simile: l’imprenditore può esistere e prosperare, ma a condizione di non mettere mai in discussione il primato del partito e di svolgere un’azione economica che sia funzionale al rafforzamento del sistema politico nel suo complesso. La differenza più marcata con il regime fascista e con quello nazista non riguarda tanto il rapporto tra politica ed economia, quanto l’ideologia e il contesto storico-culturale. Nei regimi fascista e nazista il linguaggio era nazionalista e militarista, mentre in Cina si presenta come un finto socialismo patriottico, con un forte richiamo al passato rivoluzionario e una giustificazione di tipo collettivo. Il punto comune è che in tutti e tre i sistemi una certa libertà economica era o è ammessa, ma la libertà politica resta del tutto assente.

I regimi comunisti classici, al contrario, non conoscevano né l’una né l’altra. L’abolizione della proprietà privata andava di pari passo con la dittatura politica del partito unico. La Cina di oggi, invece, tollera e anzi incentiva la proprietà privata, purché resti subordinata alle linee strategiche decise dal partito. Ciò ha portato diversi studiosi a definire l’attuale modello come una forma aggiornata di “capitalismo politico autoritario”, dinamico e competitivo sul piano economico, ma rigidamente controllato sul piano politico. Il paragone con altre realtà contemporanee aiuta a comprendere meglio questa configurazione. La Russia, ad esempio, condivide con la Cina il controllo statale dei settori strategici e un sistema politico autoritario, ma a differenza sella Cina ha un’economia asfittica, istituzioni più autoritarie e un’oligarchia selezionata non in base a principi meritocratici, ma in base a equilibri ritenuti sicuri dal dittatore del Cremlino. La Turchia conserva formalmente un pluralismo elettorale, ma sempre più ridimensionato e compresso negli ultimi anni, con forti asimmetrie di potere, media controllati dall’alto e un intreccio stretto tra politica e grandi conglomerati. Singapore, al contrario, offre diritti di proprietà molto forti e uno stato di diritto efficiente, ma anch’essa resta dominata da un partito egemone e da un sistema in cui l’iniziativa privata deve integrarsi con le holding statali.

La Cina si distingue da tutti questi modelli sia per la sua efficienza economica e tecnologica sia per la selezione meritocratica della classe dirigente. Per esempio, per diventare amministratori di una grande città, bisogna prima dimostrare di aver saputo svolgere bene questo compito in altre città più piccole. Rispetto alla Russia, la Cina si rivela quindi molto più efficiente sotto il profilo della catena di comando; rispetto alla Turchia più capillare nel controllo del partito; rispetto a Singapore assai meno garantista sul piano giuridico. Ciò che emerge è un modello ibrido che combina vitalità economica, meritocrazia e autoritarismo politico, radicato nella storia cinese e nella sua tradizione di centralità statale, e al tempo stesso sorprendentemente vicino, nella sostanza del rapporto tra strutture economiche e sistema politico, ai regimi autoritari di tipo fascista del Novecento europeo. Nonostante queste evidenze - e alla luce del fatto che alla leadership cinese di certo non converrebbe sotto alcun profilo derubricarsi dalla storia del comunismo per entrare tardivamente a far parte di quella del fascismo – la favola di una Cina ancora comunista è oggi propagandata sia da tutte quelle forze politiche occidentali che incontrerebbero serie difficoltà ad avvallare un libero scambio con una dittatura di tipo fascista, sia dai comunisti sopravvissuti al fallimento storico della loro ideologia politica su scala mondiale e che intravedono nel modello cinese una preziosa occasione di riscatto di quel che resta dello stesso comunismo. E il fatto che una superpotenza come quella cinese sia considerata da molti sedicenti comunisti o dai nostalgici dei fasti sovietici come l’occasione di una grande rivincita storica, tanto da indurre Massimo D’Alema a presenziare alla parata della vittoria che si è recentemente svolta a Pechino insieme ai peggiori dittatori criminali del mondo, testimonia una volta di più la sostanziale contiguità politica di tutte le forme di totalitarismo.


di Gustavo Micheletti