lunedì 1 settembre 2025
La Russia continua a ribadire di colpire esclusivamente “obiettivi militari” in Ucraina. Ma le cronache mostrano una verità diversa. L’attacco del 28 agosto a Kyiv lo ha dimostrato con brutalità: 25 persone uccise, tra cui quattro bambini, e interi quartieri ridotti a cumuli di macerie. In quella notte, i cieli sopra la capitale sono stati squarciati da 31 missili e quasi 600 droni. Una pioggia di fuoco che non ha risparmiato nessuno, colpendo case, uffici, scuole, linee ferroviarie e perfino sedi diplomatiche. Secondo il capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov, gli attacchi sarebbero stati diretti a “strutture del complesso militare-industriale”. Ma a Kyiv, in quelle stesse ore, intere famiglie correvano verso i rifugi sotterranei stringendo i figli al petto, sperando che i muri reggessero all’impatto. Le esplosioni hanno colpito quasi ogni quartiere della città, frantumando finestre, incendiando tetti, seppellendo vite sotto palazzi crollati. La distanza tra la propaganda di Mosca e la realtà vissuta dagli ucraini non è mai stata così crudele. Le vittime hanno nomi e volti che non possiamo ridurre a numeri. C’era Anhelina, due anni, uccisa insieme a sua madre, Nadiia Yakymenko, di 24 anni. La loro casa ora è solo un cumulo di macerie, ma tra i resti resistono ancora i giocattoli, testimoni silenziosi di un’infanzia negata.
C’era Nazariy Koval, 14 anni, uno studente con la vita davanti, spazzato via da un’esplosione. C’era Maryna Gryshko, 17 anni, ricordata dai compagni di scuola come “un raggio di gioia e gentilezza, capace di ispirare con il suo talento e la sua sincerità”. E c’era Yana Shapoval, che abitava all’ultimo piano di un edificio di cinque piani distrutto dal bombardamento: lei non c’è più, suo marito giace in gravi condizioni in ospedale, mentre il loro figlio undicenne, Maksym, si è salvato con una frattura al braccio, ma con un trauma che lo segnerà per tutta la vita. Non sono “danni collaterali”. Non sono cifre da riportare nei bollettini militari. Sono vite spezzate, famiglie dissolte, storie cancellate. Quando il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha definito l’attacco “un successo”, le sue parole si sono scontrate con l’immagine di soccorritori che scavavano tra le macerie a mani nude, con il pianto di un padre che stringeva tra le braccia il corpo del figlio, con il silenzio assordante di una città ferita.
L’attacco non ha colpito solo le case private. Il palazzo di rappresentanza dell’Unione europea è stato gravemente danneggiato, così come l’ufficio del British Council e le redazioni di Ukrainska Pravda e Radio Liberty. Le infrastrutture di trasporto hanno subito colpi durissimi: uffici postali devastati, attrezzature ferroviarie distrutte. Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. L’Unione europea ha convocato d’urgenza l’ambasciatore russo, esprimendo “indignazione e condanna totale” per l’attacco. L’Ucraina ha chiesto una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, denunciando ancora una volta la violazione sistematica del diritto internazionale e il massacro di civili. Ursula von der Leyen ha definito l’attacco un atto di terrorismo: “Il Cremlino non si fermerà davanti a nulla pur di terrorizzare l’Ucraina… colpendo civili, uomini, donne, bambini, perfino l’Unione Europea”. António Costa ha affermato con fermezza: “L’Ue non si lascerà intimidire. L’aggressione russa rafforza la nostra volontà di stare al fianco dell’Ucraina”. Kaja Kallas, alto rappresentante Ue per la politica estera, ha definito l’attacco come “un deliberato atto di escalation e scherno verso gli sforzi di pace”, aggiungendo: “La Russia deve fermare questa escalation e negoziare”. Eppure, mentre si moltiplicano dichiarazioni e condanne, sul terreno restano i corpi, restano i sopravvissuti, restano i bambini che chiedono dove siano finiti i loro genitori.
Dal canto suo, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha definito la notte del 28 agosto come “un massacro deliberato di civili”, ribadendo che “ogni tentativo di pace ha ricevuto in risposta dal Cremlino solo violenza e combattimenti”. Ha esortato il mondo a reagire con fermezza: “Il mondo deve rispondere con sanzioni più forti. La Russia comprende solo la pressione”. La guerra non colpisce solo chi muore, ma anche chi sopravvive. Ospedali pieni di feriti, scuole chiuse, famiglie costrette a fuggire, anziani che non hanno più nulla. Ogni bomba lascia dietro di sé un’onda lunga di disperazione che travolge interi quartieri. La vita quotidiana di Kyiv, come di tante altre città ucraine, è scandita dalle sirene notturne e dall’incubo di non vedere il giorno successivo. Ecco perché è fondamentale dire i nomi delle vittime. Ripeterli, ricordarli, non smettere mai di pronunciarli. Perché dietro ogni numero c’è un volto, un sorriso, un sogno spezzato. Se smettiamo di farlo, se ci limitiamo a leggere le cifre senza ascoltare le storie, allora ci abituiamo alla guerra e la trasformiamo in un rumore di fondo. Dare voce ai loro nomi significa restituire dignità a chi non c’è più, impedire che l’orrore diventi normalità. È un dovere di memoria, ma soprattutto di umanità. Ripeterli è un atto di resistenza, un modo per restare umani davanti a una guerra che rischia di trasformare le persone in statistiche.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
di Renato Caputo (*)