Il paradosso di Capanna: condannare Israele in un mondo senza verità

lunedì 25 agosto 2025


Nell’articolo di Mario Capanna, pubblicato sul quotidiano l’Unità alcuni giorni or sono, Israele viene posto sotto una luce che non ammette sfumature: non una democrazia imperfetta, ma una teocrazia compiuta, fondata non sul diritto degli uomini, ma sulla parola di Dio. La scelta originaria di rinunciare a una Costituzione – scrive Capanna – non rispondeva a una necessità contingente, bensì a un principio: bastava la Torah, là dove si proclama che Israele è “popolo consacrato” e che deve “distruggere tutti i popoli” che abitano la terra promessa. Nelle mani dei coloni, quelle frasi diventano giustificazione e mandato, non allegoria. La conseguenza, per Capanna, è inevitabile: uno Stato che si espande in nome di un’eredità divina non può che essere assimilato a Iran e Afghanistan. E a rafforzare questa visione interviene la voce ebraica di Stefano Levi Della Torre: “Il dio dei coloni israeliani è feroce come il dio dei talebani”.

Capanna non si limita a tale parallelo. Egli riconosce nel fondamento religioso dello Stato ebraico il riflesso di una lunga genealogia di fideismi assoluti: dal Deus vult delle crociate al Gott mit uns inciso sui cinturoni delle SS. Ogni volta che il divino è trascinato nello spazio della politica, l’esito appare, nella sua lettura, già scritto: la repressione, l’annientamento, la negazione dell’altro. Così, nello sguardo di Capanna, Israele appare non come democrazia difettosa, ma come forma estrema di fideismo politico, dove il sacro diventa potenza distruttiva. E in questo orizzonte, ciò che ritorna è la persistenza del medesimo destino: la violenza giustificata in nome della fede. Ma proprio qui, nel cuore di questa diagnosi che oppone la violenza della fede alla lucidità della ragione, si annida il problema più profondo. Quando Capanna afferma che, “per delle menti razionali, queste sono favolette”, egli non si limita a descrivere una contrapposizione empirica tra due modi di pensare. Stabilisce piuttosto una gerarchia ontologica: da una parte l’illusione religiosa, dall’altra la sobrietà critica del pensiero razionale. È il gesto tipico di una modernità che ha creduto di poter separare in modo netto la verità dall’errore, la lucidità dal mito. Ma è proprio questo gesto che rivela la sua fragilità quando lo si osservi alla luce di ciò che la modernità stessa ha prodotto.

Già Friedrich Nietzsche, con l’annuncio della “morte di Dio”, ha mostrato come l’Occidente non possa più fondarsi su una verità assoluta e indiscutibile. La morte di Dio non è soltanto la fine delle religioni: è il tramonto di ogni fondamento ultimo, di ogni certezza eterna. Se Dio è morto, è morta anche l’idea di una verità unica, immutabile e capace di legittimare i nostri giudizi. L’Occidente, credendo di emanciparsi dalla fede, ha in realtà aperto lo spazio in cui ogni affermazione diventa interpretazione, prospettiva, volontà di potenza.

A questo percorso della filosofia si è aggiunto, nel Novecento, quello della scienza. L’epoca positivista aveva confidato che la conoscenza scientifica fosse in grado di svelare le leggi necessarie e assolute della natura. Ma proprio la scienza, nel secolo scorso, ha rinnegato quell’illusione. La fisica quantistica ha mostrato l’impossibilità di una previsione deterministica: non vi è legge assoluta che regoli con necessità ogni evento, ma solo probabilità, onde di possibilità, campi di indeterminazione. La stessa logica del metodo scientifico, con Karl Popper, il falsificazionismo e il dibattito successivo, ha riconosciuto che la scienza non è un sapere definitivo, ma un sapere ipotetico-deduttivo, costantemente esposto alla smentita. Non ci sono verità eterne: ci sono teorie provvisorie, accettate fino a prova contraria. Il risultato è che anche la scienza, che Capanna invoca implicitamente come luogo della “mente razionale”, non si sottrae al destino di essere una forma di fede. Certo, non una fede marginale o minoritaria, ma la fede più largamente condivisa, più efficace, più vincente: la fede che oggi regge le nostre società, le nostre tecniche, la nostra quotidianità. Ma fede rimane. Perché se non vi è verità assoluta, ogni discorso, anche quello scientifico, è sempre un atto di adesione, di fiducia, di credenza in un sistema di ipotesi. E proprio per questo la scienza non è al di là delle fedi, ma è una fede fra le altre, pur immensamente più potente.

Da qui nasce la questione decisiva. Se la filosofia, la politica e persino la scienza si sono ormai congedate dall’idea di possedere una verità assoluta e necessaria, come può la cultura occidentale – la stessa di cui Capanna è figlio – sollevarsi a una condanna vera, definitiva, inappellabile della condotta di Israele? Se tutto è fede, se tutto è interpretazione, il giudizio non può pretendere di imporsi come assoluto. È in questo spazio che il discorso di Capanna rischia di cadere nella retorica: nel parlare come se esistesse ancora un luogo della verità da cui condannare, quando invece tale luogo è stato dissolto dalla stessa cultura occidentale. La sua voce appare allora sospesa: forte, indignata, ma priva di ciò che potrebbe renderla ultima e necessaria.

E tuttavia, questa sospensione non cancella l’urgenza del problema. Non dissolve la sofferenza dei popoli. Piuttosto, ci lascia davanti a un enigma che la cultura occidentale non ha ancora risolto: come giudicare, se ogni giudizio è fede? Come distinguere, se ogni distinzione è provvisoria? Come condannare, se nessuna condanna può appellarsi a una verità assoluta? Solo con la forza? Ma se si risponde così, e date le premesse Capanna non potrebbe che rispondere così, si sta legittimando ciò che originariamente si voleva condannare.


di Claudio Amicantonio