lunedì 14 luglio 2025
L’espressione “diritto di esistere”, quando riferita a uno Stato, può essere intesa almeno in tre modi diversi, non alternativi tra loro. Il primo fa riferimento alla nozione di “Paese sovrano” che è probabilmente l’unico principio solitamente utilizzato in base al diritto internazionale. La seconda modalità può invece far riferimento al concetto di sovranità popolare, e quindi a quanto caratterizza ogni democrazia; mentre il terzo, che vedremo per ultimo in quanto costituisce un caso decisamente particolare, si fonda sul diritto di ogni popolo a non essere sottoposto a persecuzioni sistematiche e cruente. Iniziando dal primo tipo di fondamento di questo “diritto”, bisogna osservare che, nel panorama geopolitico globale, la definizione di un “Paese sovrano” e il suo riconoscimento da parte della comunità internazionale rappresenta il modo di gran lunga prevalente con cui tale diritto viene abitualmente inteso. Ma cosa implica, esattamente, essere uno Stato internazionalmente “riconosciuto”? La risposta si trova nell’intersezione tra norme giuridiche, politica e relazioni internazionali, un equilibrio spesso complesso e carico di implicazioni. In base al diritto internazionale, per essere considerato uno Stato, un’entità deve possedere alcune caratteristiche essenziali, codificate in documenti come la Convenzione di Montevideo del 1933.
Si tratta di avere una popolazione stabile, che vive e si identifica con un territorio definito, un Governo capace di esercitare un controllo effettivo su quella popolazione e quel territorio, e la capacità di intrattenere relazioni diplomatiche con altre nazioni. Questi elementi costituiscono la base per l’esistenza di uno Stato, ma è il riconoscimento da parte di altri Stati o organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, a determinarne la piena integrazione nella comunità globale. Il processo di riconoscimento è per lo più determinato da considerazioni politiche. Alcuni Stati possono scegliere di non riconoscere un’entità per motivi strategici, storici o ideologici, anche se questa soddisfa tutti i requisiti giuridici. La Palestina o il Sahara Occidentale illustrano come il riconoscimento possa diventare un terreno di scontro geopolitico, con potenze globali che si schierano a favore o contro in base ai propri interessi. Uno Stato non perde il proprio diritto di esistere nemmeno quando – e qui veniamo al secondo modo di concepire tale diritto – essendo una democrazia, si macchia, con finalità che giudica soggettivamente utili a scopi difensivi, di analoghi crimini. I governi dei Paesi democratici scaturiscono infatti da regolari elezioni il cui esito può essere sovvertito da quelle successive, e finché uno Stato si mantiene fedele ai principi che sono propri di ogni democrazia, come la divisione dei poteri e l’eguaglianza civile e politica di tutti i cittadini di fronte alla legge, con il conseguente rispetto dei diritti di ogni tipo di minoranza, non perde né il diritto di essere ritenuto “democratico” né tanto meno quello di esistere, e in entrambi i casi nemmeno se dovesse macchiarsi di azioni giudicate criminali in base al diritto internazionale.
La terza tipologia di diritto sui cui si è fatto cenno rappresenta invece un caso del tutto particolare: esso non è alternativo agli altri due – che del resto non sono nemmeno alternativi tra loro, in quanto molti Paesi sovrani sono anche democratici – ma si è dimostrato, a differenza degli altri due, in grado di far percepire al popolo ebraico e alla comunità internazionale l’urgente necessità di dare vita a un Paese sovrano prima inesistente e di coadiuvarlo poi nella difesa di tale diritto. La persecuzione ultramillenaria del popolo ebraico poi culminata nell’Olocausto rese drammaticamente evidente per molti la necessità di un rifugio sicuro. I sopravvissuti, spesso senza famiglia o patria, affrontarono campi di accoglienza in Europa e restrizioni britanniche all’immigrazione in Palestina, cercando di favorire migrazioni clandestine. La Shoah unì la diaspora ebraica, galvanizzando il sostegno al sionismo, soprattutto negli Stati Uniti, e toccò le coscienze globali, influenzando la comunità internazionale. Nel 1947, l’Onu approvò la partizione della Palestina in due Stati, e tale partizione fu accolta dagli ebrei ma respinta dagli arabi. La Shoah, pur non essendone la prima causa in ordine di tempo né quella principale, conferì urgenza morale e politica alla creazione di Israele, che nacque tra conflitti e speranze producendo nuove tensioni internazionali.
La nascita dello Stato di Israele nel 1948 rappresenta quindi un caso quasi unico nella storia del diritto internazionale moderno. A differenza di molti altri Stati contemporanei, la sua origine è direttamente legata alla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la 181 del 29 novembre 1947. Se si analizzano gli altri casi in cui le Nazioni Unite sono intervenute nel processo di nascita o indipendenza di uno Stato, è evidente che il caso israeliano ha pochi paralleli. La maggior parte dei nuovi Stati emersi nel secondo dopoguerra non è stata “creata” dall’Onu, ma è nata in seguito a processi di decolonizzazione, guerre civili o secessioni, con successivo riconoscimento internazionale. Alcuni Stati hanno visto un ruolo rilevante dell’Onu nella transizione all’indipendenza, come accadde per Timor Est, amministrato direttamente dalle Nazioni Unite dopo il ritiro indonesiano e diventato poi indipendente nel 2002, o come il Sudan del Sud, la cui nascita nel 2011 fu preceduta da anni di interventi diplomatici e missioni di peacekeeping dell’Onu, ma anche in questi casi le Nazioni Unite hanno agito più come garanti o facilitatori che come attori costituenti. Eritrea, Namibia, Kosovo sono ulteriori esempi in cui l’Onu ha giocato un ruolo significativo ma non fondativo. L’Eritrea ottenne l’indipendenza dall’Etiopia attraverso un referendum; la Namibia fu posta sotto amministrazione internazionale dopo il ritiro del Sudafrica, e il Kosovo si autoproclamò Stato indipendente nel 2008 con riconoscimenti solo parziali a livello globale. In nessuno di questi casi però una risoluzione dell’Assemblea generale ha stabilito o raccomandato direttamente la creazione di uno Stato nuovo, come accadde invece per Israele.
Si può dunque concludere che Israele resta quasi un unicum nella storia delle Nazioni Unite: uno Stato la cui nascita fu formalmente raccomandata da una risoluzione dell’Assemblea generale, con un impatto concreto e diretto sulla realtà geopolitica. Gli altri esempi di coinvolgimento dell’Onu nella nascita di Stati si distinguono per il ruolo accessorio, di tutela o di accompagnamento, ma non di proposta costitutiva come nel caso di Israele. Per questo si può dire che a Israele è stato riconosciuto il diritto di esistere per ragioni del tutto peculiari e aggiuntive rispetto a quelle per cui si ritiene che abbia il diritto di esistere un qualsiasi “Stato sovrano” o un qualsiasi “Paese democratico”. Il suo “diritto di esistere” ha cioè una ragione suppletiva essenziale e pressoché unica rispetto a quello di cui godono altri Paesi sovrani. Considerando che la democraticità di uno Stato non è messa in discussione dal suo comportamento bellico e che anche gli Stati sovrani non democratici come la Russia non perdono il loro diritto di esistere invadendo o attaccando altri Paesi, massacrando altri popoli o appoggiando, come nel caso dell’Iran, un pogrom in perfetto stile nazista come quello del 7/10, l’unico “diritto di esistere” che potrebbe essere messo in discussione per la strategia adottata da Israele nel respingere l’attacco che gli è stato portato da Hamas e dai suoi alleati potrebbe essere solo quello suppletivo che contribuì alla sua stessa nascita, ovvero il diritto di un popolo di disporre liberamente di un territorio in cui non essere più soggetto a vessazioni e persecuzioni di sorta, e più in particolare di non essere sterminato.
Ora, questo tipo di diritto non è difendibile con la “forza”. A differenza di quanto accade a un qualsiasi Stato sovrano o a un qualsiasi Stato democratico, i cui governanti possono – e anche, nel secondo caso, per rispettare il mandato ricevuto dai propri cittadini “devono” mettere il loro Paese in condizione di difendersi con la forza quando sotto attacco – un simile diritto supplettivo può essere difeso solo con la comunicazione e la persuasione, ovvero convincendo l’opinione pubblica internazionale e i governanti di altri Paesi che esso è legittimo e che deve essere protetto e tutelato. Si tratta cioè di un diritto che non è fondato solo su una situazione di fatto, come quello di qualsiasi dittatura più o meno criminale, ma su dei principi universali, come quello per cui nessun popolo dovrebbe essere lasciato in balia dei suoi persecutori. In questo senso, oltre che intraprendere la propria legittima autodifesa per eliminare i nemici che mirano alla sua distruzione, Israele dovrebbe anche far fronte a quest’altro tipo di battaglia culturale per difendere tale diritto supplementare, alla luce del fatto che non si tratta di una battaglia di secondo piano. Un Paese di poco più di otto milioni di persone grande come la Lombardia, circondato da oltre un miliardo di islamici, una discreta parte dei quali lo vorrebbe eliminare dalle carte geografiche e che concepiscono la propria stessa morte per raggiungere un tale scopo come una sorta di benedizione, come la porta d’accesso privilegiata a un paradiso decisamente gradevole, non può difendersi solo con la forza, sebbene questa debba necessariamente essere usata, quando ritenuta utile, con decisione e secondo le modalità e strategie che si ritengono più efficaci.
Un Paese come Israele non può cioè trascurare di difendere il suo “diritto di esistere” anche nella terza accezione che abbiamo menzionato, perché ha bisogno di sconfiggere anche culturalmente l’antisemitismo nel mondo e ha bisogno per farlo del supporto di una parte consistente della comunità internazionale. E questo non solo per ragioni di principio, per ragioni ideali, ma perché i governi dei Paesi democrati devono rispondere delle loro scelte ai loro elettori e quando dovranno decidere se supportare o meno la legittima autodifesa di un popolo e di un altro Paese democratico non potranno non tener conto, a lungo andare, dell’orientamento in merito dei loro concittadini. Quella che potrebbe cioè sembrare solo come una battaglia per difendere dei principi, può in qualsiasi momento rivelarsi decisiva anche per definire i rapporti di forza in campo e quindi anche rispetto all’efficacia della propria strategia difensiva. Ma in quali casi un simile diritto potrebbe essere perduto? Certamente, non per l’adottare in una guerra comportamenti che sono comunemente già stati adottati più volte da molti Stati sovrani e anche da qualche democrazia. Come ogni Stato sovrano e come ogni democrazia Israele ha il sacrosanto diritto di difendersi nei modi che ritiene più efficaci per sconfiggere chi vuole la sua distruzione e ce l’ha a maggior ragione essendo di fatto sotto attacco fin da quando esiste.
Quindi, a ben vedere, l’unico possibile motivo per cui Israele potrebbe, ma soltanto nella terza accezione dell’espressione, perdere il suo “diritto di esistere” potrebbe essere da parte sua l’adozione di comportamenti che rivelino strategie genocidarie analoghe a quelle dei suoi storici persecutori. Se cioè Israele avesse, prima del 7/10 – cioè prima di aver subito un attacco criminale che ha reso evidente la necessità di togliere ad Hamas il controllo militarizzato della Striscia di Gaza – intrapreso una strategia che implicava l’uccisione fine a se stessa di decine migliaia di civili palestinesi a Gaza, o se supportasse qualche altro Stato che persegue un analogo intento verso qualche altro popolo, agirebbe in modo contraddittorio rispetto alle ragioni stesse che contribuirono a determinare il suo diritto di esistere agli occhi della comunità internazionale. Sono molti i Paesi che hanno agito in passato e ancora oggi operano nel mancato rispetto del diritto internazionale senza perdere il loro diritto di esistere e non si vede per quale motivo tale diritto dovrebbe perderlo proprio Israele, che nella circostanza attuale può tuttavia rivendicare anche tale diritto nell’accezione che gli è peculiare.
Non sarebbe probabilmente stato così se avesse avuto a disposizione una soluzione strategico-militare altrettanto efficace di quella che sta adottando, ma non essendoci stato nessuno in grado di proporne, stante la necessità vitale di togliere ad Hamas il controllo di Gaza, una altrettanto efficace e realistica, quella scelta da Benjamin Netanyahu non conduce ad alcuna perdita di tale diritto nemmeno nella terza delle accezioni di cui abbiamo ipotizzato il senso. E un tale diritto suppletivo Israele non lo perde nemmeno oggi, dopo l’attacco a l’Iran, che annuncia da decenni di voler abolire l’esistenza di Israele e ha contribuito in modo sostanziale a organizzare l’eccidio criminale del 7/10, ciò per cui l’attacco di Israele di qualche settimana fa può essere considerato una legittima azione di autodifesa. Date le dimensioni geografiche d’Israele, e cioè in considerazione del fatto che pochi ordigni nucleari giunti a bersaglio potrebbero distruggerlo annientando il suo popolo, si può facilmente capire che nessun capo di Governo responsabile sarebbe disposto a far correre un simile rischio al proprio Paese e che quindi Israele, proprio in quanto Stato democratico – ovvero in cui i governanti hanno assunto delle precise responsabilità rispetto ai loro elettori e alla loro sicurezza – ha il pieno diritto di difendersi nei modi che ritiene più opportuni e il suo Governo ha il dovere di farlo nel modo che ritiene più efficace per rispettare il mandato democratico conferitogli dai suoi cittadini.
di Gustavo Micheletti