La guerra tra Israele e Iran è stata breve, la prossima non lo sarà

giovedì 3 luglio 2025


Una pace duratura richiederà riforme politiche e ideologiche in Iran

La guerra tra Israele e Iran si è fermata, ma non è finita. In soli dodici giorni, il conflitto ombra, a lungo latente, tra questi acerrimi rivali è esploso in uno scontro militare diretto. Gli attacchi israeliani di precisione alle infrastrutture nucleari e militari iraniane del 13 giugno, seguiti dal coinvolgimento degli Stati Uniti una settimana dopo, hanno infranto l’illusione che questo scontro potesse essere contenuto a tempo indeterminato. Un fragile cessate il fuoco è stato raggiunto il 24 giugno sotto la forte pressione dell’amministrazione Trump.

Non si confonda la quiete con la risoluzione. Le radici della guerra di giugno tra Israele e Iran non sono legate alla geopolitica. Iran e Israele non hanno alcuna disputa territoriale. Le radici sono ideologiche (sostegno ai palestinesi e distruzione di Israele), il che garantisce che ci saranno altri conflitti in futuro.

La guerra Israele- Iran è stata una rottura. In meno di due settimane, l’operazione di Israele ha preso di mira la maggior parte dei siti nucleari e militari iraniani e ha ucciso molti scienziati nucleari e comandanti iraniani di alto rango, minando la credibilità militare della Repubblica Islamica. Per rappresaglia, Teheran ha lanciato circa 550 missili e 1.000 droni armati. La maggior parte di essi è stata intercettata dai sistemi di difesa aerea israeliani. Alcuni non lo sono stati. Decine di missili hanno colpito aree civili, tra cui ospedali e quartieri residenziali, rivelando insuccessi o imprecisioni negli attacchi o un agghiacciante disprezzo per la vita dei civili.

Gli avanzati sistemi di difesa missilistica israeliani hanno tenuto, causando 28 morti e circa 3.000 feriti. Il bilancio delle vittime iraniane è stato almeno di 600 morti e 5.000 feriti, tra cui molti appartenenti all’Irgc, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica,  all’esercito regolare (Artesh), ai paramilitari Basij e ai membri delle loro famiglie.

La portata della distruzione ha sconcertato molti osservatori. Ma le origini della guerra risalgono a decenni fa. Dalla sua fondazione nel 1979, la Repubblica Islamica si è contraddistinta principalmente per l’opposizione a Israele, sia ideologicamente etichettandolo  come “il regime sionista usurpatore”, sia strategicamente sostenendo gruppi terroristici proxy come Hezbollah, Hamas e gli Houthi, che mirano a distruggere Israele.

Per l’ayatollah Khomeini e successivamente per Khamenei, Israele è uno Stato “cancerogeno” che deve essere distrutto. All’ombra del disfacimento della Palestina, la distruzione di Israele è diventata un pilastro dell’ideologia della Repubblica Islamica, seguita da una politica concertata di creazione e sostegno alle milizie islamiche, che hanno circondato e attaccato Israele. L’antisionismo, insieme ai tradizionali motivi antisemiti, è stato consacrato come un pilastro dell’ideologia del regime.

Israele, da parte sua, ha perseguito una dottrina di contenimento aggressivo: assassinando scienziati nucleari, sabotando impianti e prendendo di mira gli asset iraniani in tutta la regione. Negli ultimi due decenni, ha messo in atto un’elaborata guerra ombra, cercando di indebolire la Repubblica Islamica e la sua politica estera. Dopo che il programma nucleare iraniano venne  rivelato dai gruppi di opposizione iraniani nei primi anni 2000, Israele ha intrapreso una missione per minare tale programma, presumibilmente assassinando gli scienziati nucleari iraniani, sabotando gli impianti di arricchimento dell’uranio attraverso, ad esempio, il virus Stuxnet, violando le infrastrutture e rubando i documenti. Queste operazioni sono state concepite per ostacolare efficacemente l’obiettivo di dotarsi di armi nucleari da parte dell’Iran, ma hanno anche intensificato le ostilità e accresciuto in modo significativo il senso di vulnerabilità di Teheran.

Questa dottrina è stata spinta al limite quando l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha confermato a maggio che l’Iran aveva accumulato oltre 409 chilogrammi di uranio arricchito al 60 per cento, pericolosamente prossimi alla soglia utile per costruire la bomba nucleare. Quando il 12 giugno i negoziati con gli Stati Uniti sono falliti, Israele ha preso in mano la situazione.

Tuttavia, c’è un’altra ragione per cui Israele ha agito ora: la Repubblica Islamica è internamente più debole di quanto non lo sia stata negli ultimi decenni. L’economia sta vacillando a causa delle sanzioni, dell’inflazione e della cattiva gestione. I movimenti di protesta, repressi ma persistenti, hanno eroso l’autorità del regime. Inoltre, con l’avanzare dell’età della Guida Suprema Ali Khamenei e l’incertezza sulla sua successione, Israele ha probabilmente intravisto un’occasione rara e una finestra temporale sempre più ristretta per colpire con decisione.

La risposta di Teheran non è stata solo militare, ma anche interna. Il regime è entrato in  modalità assedio. L’accesso a Internet è stato interrotto. Sono stati istituiti posti di blocco in tutte le strade per ispezionare i veicoli e sono stati confiscati i telefoni cellulari dei giovani per verificare se avessero pubblicato qualcosa contro il regime. Inoltre, arresti di massa hanno preso di mira individui accusati di simpatizzare con Israele o di criticare il governo. Più che in passato, la Repubblica Islamica sta cercando di intimidire il popolo iraniano; in realtà, sta cercando di compensare le perdite subite sul campo di battaglia e la continua repressione in patria.

Ma anche dopo un colpo così umiliante, la leadership iraniana continua ad essere ostile e sprezzante. Il Parlamento iraniano  ha di recente approvato una legge che sospende la cooperazione con l’organo di controllo nucleare delle Nazioni Unite. Il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha dichiarato che l’Iran non abbandonerà il suo programma nucleare e riconsidererà invece le modalità di protezione dei suoi impianti. La televisione iraniana sta diffondendo il messaggio delle élite militari e di quelle politiche secondo cui Teheran non interromperà il suo sostegno alle milizie sciite nella regione, né limiterà i suoi programmi missilistici o le sue ambizioni nucleari. Il messaggio è inequivocabile: la Repubblica Islamica non farà marcia indietro. Sembra che sarà più repressiva in patria e più aggressiva all’estero.

I programmi nucleari e missilistici della Repubblica Islamica non sono meri strumenti pragmatici di deterrenza. Sono il risultato di un progetto ideologico che affonda le sue radici nell’obiettivo fondamentale del regime: esportare la sua visione rivoluzionaria islamista e resistere a quella che definisce “arroganza globale”, incarnata da Stati Uniti e Israele. Se la Repubblica Islamica non si riforma o non cambia, queste ambizioni perdureranno, nucleare o meno

La storia della Repubblica islamica lo dimostra. Nonostante le sanzioni, i sabotaggi e persino gli attacchi militari limitati, Teheran ha accelerato l’arricchimento dell’uranio, ampliato i test missilistici e rafforzato le sue alleanze strategiche con altri Stati autoritari come Russia e Cina. In patria, l’Irgc, la forza responsabile dello sviluppo nucleare e missilistico, ha consolidato la sua presa sulla vita politica ed economica. La Repubblica Islamica non è un normale Stato in cerca di sicurezza; è un regime rivoluzionario che vede la sopravvivenza e il dominio regionale come inscindibili dal proprio arsenale di potere duro.

Il contenimento può quindi gestire i sintomi, ma non può affrontare la causa principale. E la causa principale è il regime stesso. Il programma nucleare iraniano non è un passo falso politico, ma un pilastro della strategia della Repubblica Islamica. Qualsiasi sforzo per eliminare veramente la minaccia deve concentrarsi sulla trasformazione del carattere politico del regime.

Ed è proprio per questo che è improbabile che il cessate il fuoco duri. Se gli Stati Uniti e i loro alleati vogliono evitare un’altra guerra, che potrebbe avere una spirale ancora più ampia, devono pensare oltre la deterrenza a breve termine. Un accordo duraturo con l’Iran non può concentrarsi solo sui limiti nucleari. Deve affrontare la più ampia dottrina di sicurezza e la postura ideologica del regime.

Ciò significa che la comunità internazionale, e soprattutto gli Stati Uniti, dovrebbero spingere per la normalizzazione dei legami dell’Iran con gli Stati Uniti, riconoscendo il diritto di Israele ad esistere e ponendo fine alla narrazione esistenziale che giustifica l’ostilità di Teheran.

Queste richieste non sono idealistiche. Sono strategiche. L’aggressione esterna e la repressione interna dell’Iran sono due facce della stessa medaglia. La sua politica estera non è solo realpolitik, ma riflette la sua identità rivoluzionaria. Se la sua identità non si evolve, non si evolverà nemmeno il suo comportamento.

Gli scettici sosterranno, con qualche giustificazione, che è improbabile che l’Iran cambi. Il regime ha usato a lungo l’antiamericanismo e l’antisionismo per mantenere il potere. Ma la storia suggerisce che è capace di cambiamenti pragmatici quando è in gioco la sua sopravvivenza. Dopotutto, è stata questa stessa leadership a riaprire il dialogo con Donald Trump dopo che quest’ultimo aveva annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, imposto al Paese una serie di sanzioni economiche  stringenti e ordinato l’uccisione del generale Qassem Soleimani.

Nel frattempo, l’accettazione del cessate il fuoco di Trump dopo che Israele ha umiliato la forza militare iraniana e gli Stati Uniti hanno danneggiato le sue strutture nucleari dimostra che i suoi leader sono disposti a negoziare sotto minaccia quando il regime è a rischio. La lezione? Anche i regimi più rigidi ideologicamente possono mostrare una “flessibilità eroica” sotto pressione.

La Repubblica Islamica è più isolata che mai. I suoi alleati regionali sono indeboliti. Il suo esercito è stato umiliato e la sua economia è in caduta libera. La sua popolazione è inquieta. Queste vulnerabilità non sono permanenti. Ma creano un raro momento di vantaggio per gli Stati Uniti e la comunità internazionale. Nel prossimo ciclo di negoziati, un accordo sul nucleare ristretto non sarà sufficiente. Solo un accordo globale che unisca garanzie di sicurezza e riforme politiche e ideologiche può spezzare il circolo vizioso del conflitto.

Non sarà facile. Ma l’alternativa è peggiore: un’altra guerra, che potrebbe non essere così contenibile.

(*) Tratto dal Middle East Forum

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Saeid Golkar (*)