giovedì 3 luglio 2025
Il termine “genocidio” porta con sé un peso storico e giuridico che richiede una definizione precisa per evitare fraintendimenti. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite del 1948: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale dei membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.
La definizione di “genocidio” è riconosciuta a livello internazionale ed è utilizzata in ambito giuridico, come base per i procedimenti nei tribunali internazionali. La premessa chiave affinché si possa procedere con un’imputazione di “genocidio” è l’intenzione di distruggere un gruppo specifico. Quest’intenzione non può essere evinta dal numero dei civili morti o da altri effetti devastanti e strazianti che sono spesso connessi con una guerra, perché altrimenti ognuna potrebbe essere considerata un genocidio. Ciò che rende un atto o una strategia bellica un “genocidio” non è solo la gravità delle azioni, ma l’intenzione deliberata di eliminare un gruppo specifico in quanto tale: non quello di sconfiggerlo in un conflitto, ma quello di sterminarlo al là dei vantaggi che ciò potrebbe procurare per uscirne vincitori. Questa intenzione è il cuore della sua definizione, che ne distingue il significato da quello di altre espressioni che ricorrono spesso per definire alcuni momenti o aspetti di tanti conflitti, come per esempio “crimini di guerra o contro l’umanità”, “massacri” o “devastazioni”.
Ma se per qualificare un atto come “genocidio” deve essere provato che l’intento specifico o prioritario era distruggere un gruppo protetto (nazionale, etnico, razziale o religioso), quando tali distruzioni sono gli effetti, anche devastanti, di una strategia bellica l’uso di questo termine risulta inappropriato. Ad esempio, un’invasione per motivi territoriali o economici non è automaticamente genocidio, a meno che l’obiettivo primario non sia proprio quello di eliminare un gruppo specifico.
In ogni guerra, naturalmente, possono verificarsi singole azioni che rientrano nella definizione di “genocidio”, come ad esempio dei massacri mirati, ma gli attacchi militari a obiettivi strategici che comportano massicce perdite civili non soddisfano di per sé il criterio dell’intenzione genocida, che invece, per esempio, si verificò in Ruanda nel 1994, quando in un contesto di conflitto ci fu il chiaro intento di sterminare i Tutsi. Quando invece l’intenzione principale delle azioni belliche è legata a obiettivi militari, politici o di rappresaglia, piuttosto che a un piano deliberato di sterminare un gruppo nazionale, etnico o religioso, non si può parlare di “genocidio”, che è una cosa diversa da una “strage” o da un “massacro”. Stragi e massacri sono stati compiuti da tutti paesi belligeranti durante ogni conflitto.
Ad oggi, la proporzione di civili morti a Gaza sembra superare di poco la media di tutti i conflitti degli ultimi cento anni, con una differenza tutto sommato modesta se si tiene conto che l’esercito israeliano deve combattere contro terroristi mimetizzati tra gli stessi civili, vestiti come loro, dislocati spesso in scuole e ospedali o in reticoli di tunnel cui è impossibile accedere senza correre il rischio elevato d’incorrere in imboscate. Si tratta di difficoltà simili a quelle che in genere vengono affrontate da corpi speciali di polizia quando devono contrastare l’azione di qualche gruppo terrorista, che solitamente è formato al massimo da alcune decine di persone. In genere, gli eserciti regolari non sono chiamati ad affrontare questo tipo di difficoltà, che comportano un sacrificio di civili mediamente superiore a quello di qualsiasi guerra tradizionale, ma in alcune aree del mondo queste situazioni si sono verificate negli ultimi decenni sempre più spesso e sempre con grandi perdite tra i civili.
Nonostante questo tragico scenario, a Gaza non si può tuttavia parlare di “genocidio”, perché l’intento del governo israeliano non è quello di eliminare la sua popolazione – obiettivo questo che sarebbe, oltre che scellerato e criminale, anche insulso e controproducente – ma quello di eliminare tutto il gruppo dirigente di Hamas privandolo di quel controllo totale sulla Striscia che ha avuto fino a pochi mesi fa. Per conseguire un simile obiettivo si rende necessaria una strategia militare complessa e irta di difficoltà, che corre anche il rischio di rivelarsi politicamente svantaggiosa, in quanto sta mettendo in discussione molte relazioni internazionali d’Israele con paesi tradizionalmente amici e con l’opinione pubblica occidentale.
La necessità di adottare una strategia militare complessa e non priva di tragiche implicazioni viene oggi ignorata anche da chi sembra proporsi di fornire una versione obiettiva dei fatti denunciando ogni crimine internazionale. Amnesty International, per esempio, dopo aver analizzato il modello generale della condotta dello Stato di Israele a Gaza, ritiene che si configuri un intento genocida. Nonostante l’obiettivo militare dichiarato da Israele di sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi, secondo Amnesty il diritto internazionale indica “che uno Stato può agire con intento genocida perseguendo allo stesso tempo altri obiettivi. Anche se Israele perseguiva obiettivi militari, la totalità delle prove indica che l’unica deduzione ragionevole che si può trarre dal modello di condotta di Israele a Gaza è che stava anche cercando di distruggere la popolazione palestinese a Gaza in quanto tale, il che significa che la sua offensiva militare e le relative azioni e omissioni a Gaza sono state condotte con intento genocida”.
Ma per fare un’affermazione così grave bisognerebbe prima dimostrare che Israele disponga di altre strategie alternative sia per liberare gli ostaggi senza cedere a ricatti che favorirebbero la posizione di chi lo vuole distruggere, sia per eliminare coloro che hanno attuato il massacro del 7/10, che può ragionevolmente considerare come nemici da sconfiggere. In assenza della prova dell’esistenza di un’altra strategia non meno efficace nel perseguire i suoi legittimi obiettivi, non si può affatto dimostrare che l’offensiva militare israeliana a Gaza sia stata condotta “con intento genocida”.
Amnesty international tende quindi a dedurre in modo arbitrario e strumentale l’esistenza di un’intenzione genocidaria omettendo d’indicare quali potrebbero essere le azioni militari alternative per conseguire gli obiettivi che Israele legittimamente si prefigge, come privare Hamas del pieno controllo su Gaza. Senza tenere in minima considerazione il grave danno politico che Israele sta ricavando dall’adozione di una strategia ‒ che, se non fosse stata strettamente necessaria, nessun capo di governo dotato di un minimo di buon senso si sarebbe mai sognato di adottare ‒ Amnesty sembra essersi dimenticata che l’eccidio del 7/10 e l’uso sistematico di civili come scudi umani costituiscono la causa principale della presente situazione e che entrambi questi fatti sono frutto di una precisa scelta strategica programmata per anni da Hamas. Come hanno infatti più volte dichiarato suoi autorevoli esponenti lo spargimento di sangue palestinese era necessario per provocare prima l’isolamento internazionale di Israele e poi la sua definitiva sconfitta, con relativa cancellazione dalle carte geografiche.
Oggi, sotto un certo profilo, questa cinica strategia criminale di Hamas si sta rivelando vincente: Israele è di fatto, dopo circa un anno e mezzo dal 7/10/23, più isolato e più debole sotto il profilo delle relazioni internazionali; ma se riuscisse nell’intento di sottrarre ad Hamas il pieno controllo della Striscia il successivo processo di pace che potrebbe seguirne, concludendosi con la nascita di uno Stato palestinese che riconosca finalmente ad Israele il diritto di esistere, sarebbe virtualmente in grado di porre fine a una guerra che dura da quasi ottant’anni, con un futuro risparmio di vittime innocenti che sarebbe complesso calcolare esattamente, ma che risulterebbe nel corso degli anni assai superiore alle vittime che potrebbero esserci se Hamas restasse nella piena disponibilità di Gaza. Ovviamente, si tratta di un percorso complesso e ricco di difficoltà, ma una volta conseguito l’obiettivo di liberare Gaza da Hamas due nuovi governi, sia in Israele sia presso l’Anp, potrebbero essere in condizione di portarlo avanti con qualche probabilità di successo.
Piuttosto che auspicare un simile processo di pace, coloro che oggi manifestano per le strade e le piazze del mondo occidentale sventolando le bandiere palestinesi preferiscono spesso agitare lo slogan “dal fiume al mare”, ribadendo così di auspicare la fine dello Stato d’Israele. Costoro rivelano in questo modo, pur spacciandosi pe difensori della causa palestinese, di voler appoggiare la strategia di Hamas, ovvero di un’organizzazione antisemita e terrorista, premiando l’azione criminale del 7/10, e con questa finalità arrivano persino a usare in modo improprio, cinico e strumentale il termine “genocidio”.
In realtà, se la pace è ancora possibile, ad essa si potrà arrivare solo quando l’Autorità Nazionale Palestinese, dopo la fine del potere di Hamas a Gaza e memore delle reali responsabilità di questa tragedia, sceglierà di percorrere l’unica strada in grado di condurvi: riallacciare un dialogo con un nuovo governo israeliano per arrivare a un trattato tra due Stati che si riconoscano reciprocamente il diritto di esistere; o almeno questo è quanto si potrà ragionevolmente sperare dopo che Israele non sarà più costretto a convivere con un’organizzazione politica in grado di militarizzare un intero popolo e un intero territorio confinante e che ha per statuto il primario obiettivo dichiarato di provocare la sua distruzione.
di Gustavo Micheletti