Dalla questione di genere a un silenzio sui generis

lunedì 30 giugno 2025


Le recenti manifestazioni indette da Pd, Avs e M5s in solidarietà a Gaza ci portano a riflettere su quelle rivendicazioni o quei non detti che segnano una linea di faglia tra una sinistra impegnata nella legittima critica alla guerra (e che magari, a fianco della denuncia, si impegni a indicare delle alternative percorribili per portare alla liberazione dei rapiti e alla fine, richiesta anche dall’Anp, del potere di Hamas) e quella sinistra – ieri minoritaria, oggi sempre più egemone – che si fa vettrice della delegittimazione di Israele. Un peso decisivo, in tale slittamento, è giocato dalla cronaca di guerra e dalla drammatica condizione dei civili gazawiti, stretti tra Hamas, con la sua volontà di martirio (“abbiamo bisogno del sangue delle nostre donne e bambini”, come disse uno dei loro dirigenti), e il fuoco israeliano, e per i quali è certo inderogabile garantire condizioni di sicurezza e approvvigionamento. Irrisolto, inoltre, il nodo politico decisivo sul futuro politico della striscia di Gaza, dunque sulle condizioni affinché la popolazione arabo-palestinese possa tornare alla vita e costruire nuovo benessere. Tuttavia se l’innegabile dramma della guerra conduce a determinate conclusioni politiche (antisionismo), ciò pare dato dal pre-sussistere di determinate categorie di lettura. Il tipo di reazione di buona parte del femminismo agli attacchi del 7 e, più in generale, la sottovalutazione del ruolo giocato dal totalitarismo islamista in una lettura del conflitto con le lenti dell’intersezionalità sono, in questo senso, significative.

Se qualche anno fa ci fosse stato detto che il più grande stupro di massa contro donne israeliane sarebbe stato ignorato, negato, sottovalutato o “contestualizzato” da femministe di tutto il mondo, molti di noi avrebbero stentato a credervi. L’attenzione nei confronti dei femminicidi coinvolge ormai anche gli uomini, eppure il 7 ottobre non ha destato, nell’ambito del femminismo di sinistra, particolare indignazione: tranne poche ma importanti eccezioni, la maggioranza dei gruppi femministi ha scelto la linea del silenzio. A poco è servito tradurre e diffondere il report speciale dell’Association of Rape Crisis Centers in Israel intitolato Silent Cry, sexual crimes in the October 7 war, che contiene informazioni e descrizioni dettagliate degli abusi sessuali, delle torture e degli omicidi perpetrati dai terroristi di Hamas e di alte fazioni, oltre che da alcuni civili che li seguivano, sul territorio israeliano. Le coscienze di tante femministe non sembrano esser state interpellate neppure dall’oscena spettacolarizzazione a cui, in occasione del loro rilascio, sono state sottoposte (al pari degli altri rapiti) le donne tenute prigioniere per quasi 500 giorni.

In nome dell’antisionismo e dell’intersezionalità, la violenza sulle donne israeliane (e su chiunque si trovasse a loro fianco) viene ritenuta un incidente da ricondurre a un più generale contesto di lotta anti-coloniale. Come osserva il filosofo francese Alain Finkielkraut, se ieri l’antisemitismo si basava sul razzismo, oggi sembra trarre linfa da una certa concezione dell’antirazzismo, vuoi perché l’ebreo-a israeliano-a sono sussunti alla categoria di “bianco occidentale” (in modo, peraltro, del tutto arbitrario per chiunque conosca Israele), vuoi tradendo l’antica ostilità anti-giudaica verso un popolo accusato di non ‘assimilarsi’, ossia – in parole povere – di non dissolversi. L’affermazione, al centro della teoria dell’intersezionalità e di per sé condivisibile, di non essere tutte, in quanto donne, oppresse nello stesso modo, si traduce in un rigido binarismo che vede solo oppressi e oppressori. In definitiva, per queste femministe, le ebree israeliane “se la sono cercata”: colpevoli, al pari dei loro connazionali, di essere lì, nei confini di uno stato che non viene considerato legittimo.

Il 7 ottobre appare così come l’inizio di una lotta di “liberazione” dove la parte palestinese è ridotta, tradendo una visione paternalistica, a vittima strutturale, senza interrogarsi sulle responsabilità delle dirigenze arabe, a partire dai reiterati rifiuti dai primi del Novecento in avanti verso qualunque proposta di compromesso territoriale. Israele, il cui nome viene cancellato sotto l’etichetta di “entità sionista”, viene intesa come prodotto del razzismo e del colonialismo. Lessico che, con un tocco glamour che strizza l’occhio all’ideologia egemone in parte del mondo accademico, non fa altro che resuscitare le categorie della propaganda sovietica (a suo tempo fatta propria anche dalla sinistra non-stalinista) successiva alla Guerra dei sei giorni, ove Israele veniva ridotta a “avamposto dell’imperialismo”.

In questo armamentario ideologico volto a delegittimare l’esistenza di Israele un ruolo chiave è svolto, purtroppo, da alcune opinioni espresse dalla filosofa Judith Butler che il 3 marzo 2024, invitata dal Nuovo partito anticapitalista francese e alla presenza di tre deputati di La France Insoumise, ha dichiarato con estrema serietà: “Penso che sia più onesto e più corretto dal punto di vista storico dire che la rivolta del 7 ottobre sia stata un atto armato di resistenza. Non un atto terroristico e nemmeno un attacco antisemita: è stato un attacco contro gli israeliani”. Nel corso degli anni Butler – il cui contributo per gli sviluppi del pensiero filosofico occidentale non è qui in discussione – ha optato per una critica strutturale non tanto alle politiche di Israele quanto al fatto che Israel, in quanto popolo ebraico, si doti di una propria espressione politica nell’autodeterminazione nazionale. In luogo di concentrarsi, secondo una battaglia che da sempre caratterizza la sinistra sionista, sul vulnus, politico e morale, dello statuto giuridico dei territori della Giudea e Samaria-West Bank – portando un contributo critico alla battaglia per il compromesso territoriale, da una parte, e per la convivenza tra le differenti comunità, dall’altra – Butler indica nella fine della vulnerabilità politica dell’esilio (condizione differente da quella diasporica) e nello Stato-nazione delle colpe strutturali, potremmo dire dei peccati originali.

In questa crociata ideologica il conflitto arabo-israeliano-israelo-palestinese viene compresso in uno schema manicheo: sionismo diviene sinonimo di “razzismo” e la realtà, pur con le sue contraddizioni, della democrazia israeliana – con il suo 20 per cento di popolazione non ebraica che contrasta con la progressiva pulizia etnica operata dai Paesi arabi a danno delle proprie popolazioni ebraiche – virtualmente sacrificata, onde poter corroborare la propria argomentazione. Non è un caso, dunque, che il nome di Butler figuri in tutte le campagne internazionali di boicottaggio (Bds) fuori e dentro i campus universitari americani.

Già nel 2006 Butler aveva spiegato che Hamas e Hezbollah non sarebbero da considerare gruppi terroristici, ma piuttosto dei movimenti sociali progressisti, che quindi fanno parte a pieno titolo del campo della sinistra. Nel 2009 aveva pubblicato, insieme alla compagna Wendy Brown e a due antropologi vicini al partito dei Fratelli musulmani, Talal Asad e Sarah Mahmood, un testo passato perlopiù inosservato, ma assai significativo, dal titolo Is Critique Secular? Blasphemy, injury and Free Speech. In quel libro le autrici prendevano come bersaglio della loro critica la rivista satirica Charlie Hebdo, accusata di diffondere idee blasfeme con la scusa della laicità. Il libro è stato tradotto in francese nel dicembre 2015 a pochi mesi di distanza dall’attentato in cui morirono 12 persone della redazione. La penetrazione dell’ideologia islamista nelle università, iniziata dagli anni Novanta continua lenta e costante. È del resto di questi giorni, in Francia, la pubblicazione di un dettagliato rapporto sull’infiltrazione dei fratelli ‎musulmani, che sta sollevando grandi iscussioni a livello mediatico e politico.

Chi cerca di porre argini a questa deriva, viene facilmente accusato di islamofobia e posto ai margini. È quanto avvenne allo storico francese Georges Bensoussan, dopo aver ripreso una frase dello scrittore Boualem Sansal – attualmente imprigionato nelle carceri algerine, nonostante condizioni di salute molto precarie e, soprattutto, senza una chiara accusa a suo carico. Con grande onestà intellettuale, in una trasmissione radiofonica, Sansal aveva detto che nei Paesi islamici l’antisemitismo si respira nell’aria. Il legame con Israele è presto detto: come ricorda lo stesso Bensoussan, a non essere accettabile nella prospettiva islamista era, ed è, il venir meno dell’ebreo sottomesso. Per limitarci a un esempio, spesso riportato da Einat Wilf (ex deputata laburista alla Knesset), nelle società islamiche tradizionali era fatto divieto all’ebreo di avere armi e di andare a cavallo, con il conseguente rifiuto dell’ebreo che, al contrario, è in grado di autodeterminarsi e difendersi, e la conseguente volontà di umiliarlo e riportarlo alla condizione subordinata. I frutti di questo lavoro propagandistico ormai trentennale negli ambienti scolastici, nell’associazionismo giovanile, e nella società a tutti i livelli, si erano già visti, in Francia, in occasione della grande manifestazione contro l’islamofobia del 12 novembre 2019, in cui i giovani e i rappresentanti della sinistra sfilavano in corteo per nulla turbati dalle voci che gridavano Allahu Akbar.

Nelle manifestazioni in solidarietà con la Palestina – che paiono, però, piuttosto delle manifestazioni in solidarietà con Hamas, posto che non indicano in questa la responsabile di aver fatto naufragare in velleità bellicista la possibilità di un processo di autodeterminazione sulla Striscia – che attraversano ogni settimana le strade di molte città italiane, è ormai normale ascoltare slogan come From the river to the sea e l’immancabile Allahu Akbar. Il primo, è slogan inteso e vissuto da alcuni come un revival dell’ormai desueto Palestina libera Palestina rossa, tale per cui la liberazione avocata si declinerebbe in uno stato laico per tutti i cittadini: in buona o cattiva fede si sceglie di ignorarne il significato reale, nelle rivendicazioni che lo sottendono e negli effetti che la sua realizzazione determinerebbe, ossia la negazione dell’autodeterminazione nazionale del popolo ebraico e la condanna di quest’ultimo a ritornare a una condizione di minoranza e di minorità politica. A levare ogni dubbio sull’effettivo significato di tale slogan – già problematico quando inteso nell’ottica laica della sinistra, in ciò che rifiuta di riconoscere le aspirazioni nazionali ebraiche e, paradossalmente, anche quelle arabo-palestinesi – è il contesto in cui viene scandito, dove l’evocazione del nome arabo di Dio, lungi dall’essere un richiamo alla comune matrice dei tre monoteismi, è, come evidente, grido che aizza e giustifica la guerra santa contro gli infedeli – dove le prime vittime sono, come noto, gli stessi arabi e mussulmani che non si riconoscono in tale progetto totalitario.

In buona o cattiva fede, gli eredi del marxismo e della sinistra anticapitalista cedono il passo a una lettura della teoria dell’intersezionalità che finisce con il legittimare, anche solo negandone il peso specifico, le ideologie reazionarie del nazionalismo panarabista e del fondamentalismo islamista. Un processo iniziato, quantomeno, con l’infatuazione di una parte della sinistra – significativa la traiettoria di Michel Foucault – per la rivoluzione islamica iraniana e oggi proseguita anche grazie a Butler. Dalle questioni di genere alla difesa di ideologie le cui prime vittime sono, come noto, donne e omosessuali, subito seguite dalle diverse minoranze, dai cabili ai curdi e drusi, per non citare che le principali, a cui viene negata ogni autodeterminazione.


di Cosimo Nicolini Coen e Sabina Zenobi