giovedì 26 giugno 2025
La tregua made in Usa tra Iran e Israele regge. Ma nello Stato ebraico continua la “caccia alle streghe” verso il premier Benjamin Netanyahu. Donald Trump ha prontamente difeso il primo ministro, definendolo “un guerriero come forse nessun altro guerriero nella storia di Israele” e attribuendogli il merito della “completa eliminazione di una delle armi nucleari potenzialmente più grandi e potenti al mondo”. Il riferimento è all’attacco condotto da Israele con il supporto statunitense contro i principali siti nucleari dell’Iran. “Stavamo lottando, letteralmente, per la sopravvivenza di Israele, e non c’è nessuno nella storia di Israele che abbia combattuto più duramente o con più competenza di Bibi Netanyahu”, ha insistito Trump. Ma la polemica si è subito intrecciata con le vicende giudiziarie dell’alleato israeliano: “Nonostante tutto questo, ho appena saputo che è stato convocato in tribunale lunedì per la continuazione di questo lungo processo – uno spettacolo dell’orrore da maggio 2020”, ha denunciato, parlando apertamente di “una tale caccia alle streghe” che “è impensabile per me”.
Sul piano militare, il bilancio del conflitto è chiaro: Teheran esce profondamente colpita. L’Iran, privato di parte della sua infrastruttura strategica, risulta oggi militarmente e politicamente più debole. La superiorità tecnologica e di intelligence di Israele – sostenuta da Washington – si è manifestata in modo netto. Ma se l’offensiva ha avuto successo sotto il profilo tattico, la strategia di lungo periodo resta da definire. Perché dopo la stretta arriva il segnale d’apertura. L’obiettivo, secondo fonti vicine alla Casa Bianca, non era innescare un’escalation su larga scala, ma “dare una lezione”. E non solo all’Iran. Lo strike, mirato e calibrato, ha avuto un chiaro valore simbolico e geopolitico. Ma ora Trump sembra voler riportare il confronto al tavolo della diplomazia.
Quanto all’effettiva entità dei danni, permane un certo grado di incertezza. Le informazioni restano parziali e contraddittorie. Se alcune fonti ufficiali minimizzano, altre, al contrario, parlano di danni estesi e duraturi. È stato lo stesso Trump a smentire apertamente il New York Times e la Cnn, rei – a suo dire – di aver sottovalutato l’efficacia dell’operazione. Il presidente ha spinto il paragone dei suoi fasti evocando Hiroshima e Nagasaki. A confermare la gravità dell’impatto è stato il direttore della Cia, John Ratcliffe, presente nella Situation Room accanto a Trump al momento dell’attacco: “Abbiamo raccolto prove che indicano che i siti nucleari dell’Iran sono stati devastati e ci vorranno anni per ricostruirli”, ha dichiarato. “Abbiamo nuove informazioni provenienti da una fonte storicamente affidabile e accurata secondo cui diversi importanti impianti nucleari iraniani sono stati distrutti e dovranno essere ricostruiti nel corso degli anni”, ha aggiunto in una nota formale.
Eppure, un elemento sorprendente ha accompagnato la chiusura del conflitto: un attacco iraniano al Qatar annunciato in anticipo, quasi rituale, che ha offerto a Trump l’occasione per un ringraziamento pubblico a Teheran. Un gesto che lascia intravedere un interesse comune a disinnescare le tensioni. Washington e Teheran, almeno per ora, sembrano convergere su un cessate il fuoco utile a congelare il confronto. La posizione israeliana, invece, appare più determinata ma non meno complessa. Dopo il massacro del 7 ottobre 2023 firmato Hamas, Netanyahu aveva promesso di “rimodellare il Medio Oriente” e di “chiudere i conti” con i nemici storici dello Stato ebraico. L’obiettivo, almeno nei termini bellici, sembra parzialmente raggiunto: Hamas è stato duramente colpito, Hezbollah ridimensionato, e gli Houthi indeboliti. Poi, l’attacco alla “testa del serpente”, l’Iran, il principale sponsor dei gruppi ostili a Israele. Ma resta aperto l’interrogativo più politico: Netanyahu riterrà sufficiente la lezione inflitta a Teheran? Oppure proseguirà l’offensiva in altre forme?
Nel frattempo, Teheran non recede. Il governo ha ribadito di essere pronto a negoziare, ma al contempo insiste nel proseguire con il programma nucleare, che definisce “pacifico”. Una dichiarazione che non convince la comunità internazionale. L’Aiea – pochi giorni prima dei raid – aveva denunciato l’assenza di collaborazione da parte di Teheran e confermato che l’arricchimento dell’uranio aveva toccato il 60 per cento, soglia vicina a quella necessaria per armamenti nucleari e ben oltre i limiti per uso civile. Inoltre, parte significativa del materiale sarebbe già stato trasferito prima dei bombardamenti, a dimostrazione che l’Iran aveva previsto l’attacco. La novità più preoccupante riguarda tuttavia le intenzioni di Teheran di ritirarsi dagli accordi con l’Aiea: un passo che, se confermato, renderebbe praticamente impossibili nuove ispezioni.
di Eugenio Vittorio