martedì 24 giugno 2025
Invocare il ritorno al trono iraniano di Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo Scià, significa proporre la regressione a un modello politico delegittimato dalla storia, radicato nella subalternità sistemica agli interessi occidentali e incapace di garantire alcuna forma reale di sovranità. La dinastia Pahlavi non fu mai, in alcun momento della sua esistenza, espressione autentica della volontà del popolo iraniano: essa nacque, si consolidò e, infine, si impose come strumento funzionale alle strategie geopolitiche angloamericane in Medio Oriente. L’idea che il figlio possa oggi incarnare una rinascita nazionale è una pericolosa illusione. La monarchia pahlaviana fu una costruzione artificiale, un apparato di potere gestito e orientato dall’esterno, privo di legittimazione profonda, sorretto non da un consenso popolare ma da apparati repressivi e appoggi diplomatici di potenze straniere.
Il golpe del 1953 orchestrato da Stati Uniti d’America e Regno Unito, che rovesciò il Governo democratico di Mohammad Mossadeq, colpevole di aver nazionalizzato il petrolio iraniano, non fu solo un evento di destabilizzazione istituzionale: esso segnò la trasformazione definitiva dello Scià Mohammad Reza Pahlavi in un burattino manovrato da Washington e Londra, incapace di agire autonomamente, vincolato in tutto alle direttive strategiche delle potenze occidentali. La monarchia divenne così un presidio coloniale in forma regale, travestito da modernizzazione autoritaria. L’apparente laicità, l’industrializzazione forzata, le riforme calate dall’alto non rappresentavano una reale emancipazione, ma l’imposizione di un modello occidentale su una civiltà islamica ricca di identità, di pensiero e di strutture sociali proprie. Questa eterodirezione istituzionale, oltre a violare ogni principio di sovranità popolare, distrusse la legittimità interna della monarchia e generò una reazione profonda nella società iraniana.
La Rivoluzione del 1979, lungi dall’essere una pura insorgenza religiosa, fu un movimento complesso, radicato in una domanda radicale di indipendenza politica, giustizia sociale e decolonizzazione culturale. La Repubblica islamica, pur con tutti i suoi limiti, rappresenta il tentativo di riappropriarsi della sovranità, non solo in senso politico-istituzionale bensì anche filosofico. Il sistema del “velayat-e faqih” (giurista-teologo) non va compreso con le categorie riduttive del secolarismo occidentale: esso rappresenta un’alternativa costituzionale alla modernità liberale, fondata sull’integrazione tra ordine morale e autorità politica, tra legge divina e diritto positivo. Da un punto di vista giuridico, ogni ipotesi di restaurazione monarchica imposta dall’esterno è radicalmente illegittima.
L’articolo 1, paragrafo 2, della Carta delle Nazioni unite del 1945 sancisce in modo inequivocabile il diritto dei popoli all’autodeterminazione. La reintroduzione di un potere dinastico sponsorizzato dalle cancellerie occidentali costituirebbe una violazione frontale di questo principio, una riedizione aggiornata del colonialismo classico sotto la veste della transizione democratica. Le ingerenze esterne nel diritto costituzionale di uno Stato sovrano violano non solo i fondamenti del diritto internazionale, ma anche la ratio profonda del costituzionalismo, che si fonda sulla volontà autonoma di un popolo che si dà un ordine giuridico conforme alla propria identità. In chiave filosofica, la proposta restaurativa si mostra ancora più inadeguata. L’autorità, per essere legittima, deve rispondere a due condizioni: provenire dalla comunità e orientarsi al bene comune. La monarchia pahlaviana non rispondeva né all’una né all’altra.
Essa nacque dalla volontà coloniale dell’Impero britannico, fu consolidata dall’intelligence statunitense e si sostenne attraverso un complesso repressivo-tecnocratico (la famigerata SAVAK) che escludeva il popolo da ogni partecipazione politica autentica. I Pahlavi non furono mai un principio ordinatore interno, quanto uno strumento geopolitico eteronomo, del tutto estraneo alla cultura politica e spirituale del mondo iranico. Lo Scià non regnava in nome di Dio, né del popolo: regnava per conto terzi. Reza Pahlavi, oggi, rappresenta la prosecuzione simbolica di quella stessa logica di subordinazione. Formatosi all’estero, integrato nei circuiti di potere occidentali, sprovvisto di qualsivoglia rapporto organico con le strutture religiose, culturali e sociali dell’Iran, egli non può aspirare ad alcuna forma di rappresentanza. Il suo ritorno, se avvenisse, segnerebbe non un atto di libertà, ma una nuova forma di occupazione. Politicamente, la sua ascesa equivarrebbe alla trasformazione dell’Iran in uno Stato vassallo, funzionale agli interessi strategici di Israele, degli Stati Uniti d’America e dell’Unione europea, nel quadro di un ridisegno della regione funzionale a uno pseudo ordine mondiale privo di giustizia e di diritto.
L’Iran contemporaneo, malgrado le sue contraddizioni, ha saputo difendere la propria indipendenza contro sanzioni, guerre per procura e operazioni di destabilizzazione. È uno dei pochi Paesi che conserva una sovranità reale, capace di resistere all’imperialismo culturale, giuridico ed economico dell’Occidente. Un ritorno ai Pahlavi equivarrebbe a disfare questa conquista. Sarebbe la fine della sovranità, la riduzione della politica a spettacolo per le cancellerie occidentali, la negazione della giustizia come fondamento dell’autorità. Nessuna libertà può nascere dalla restaurazione di una servitù storica. Nessun ordine può fondarsi su un potere nato dalla dipendenza. Nessuna pace può germogliare su un trono costruito altrove.
di Daniele Trabucco