venerdì 13 giugno 2025
Forse quella singola stella in mezzo al rosso, al bianco e al blu della bandiera cubana può finalmente significare ciò che avrebbe dovuto simboleggiare.
Il presidente Donald Trump, come i suoi predecessori, vuole la Groenlandia. Gli Stati Uniti hanno ripetutamente cercato di annettere l’isola artica, una volta attraverso un complicato scambio territoriale a tre con Germania e Danimarca nel 1910 e poi con 100 milioni di dollari in contanti subito dopo la Seconda guerra mondiale. I leader della Groenlandia non hanno mai accettato l’idea di diventare americani. E non sembrano più propensi a farlo oggi.
Trump sta fantasticando sull’isola sbagliata. Dovrebbe guardare a sud, verso un Paese che da tempo gravita dentro e fuori il dominio degli Stati Uniti. Ma prima ripercorriamone un po’ di storia.
Il sogno americano di Cuba
Nel 1850, il generale spagnolo di origine venezuelana Narciso Lopéz, a capo di una spedizione, tentò di invadere l’isola per rovesciare il dominio spagnolo e ottenere l’indipendenza di Cuba dalla Spagna. Nel 1851, organizzò una seconda spedizione che fallì come la prima, per poi essere catturato e giustiziato dagli spagnoli. Prima, però, di intraprendere queste spedizioni, Lopéz concepì l’idea della bandiera cubana: tre strisce blu e due bianche alternate orizzontalmente ancorate in un triangolo rosso con una stella bianca al centro. Scelse il rosso, il bianco e il blu con una stella per simboleggiare la sua ambizione che Cuba diventasse uno Stato americano.
Come per la Groenlandia, gli Stati Uniti hanno tentato di annettere Cuba alla nazione diverse volte sin dalla sua fondazione. Nel 1823, il segretario di Stato americano John Quincy Adams previde che Cuba sarebbe stata annessa alla Spagna entro 50 anni. Nel 1848, il presidente James Polk offrì di acquistare Cuba per 100 milioni di dollari (4 miliardi di dollari di oggi) e il presidente Franklin Pierce aumentò l’offerta a 120 milioni di dollari nel 1854. Infine, Lopez lanciò la sua campagna per sfrattare gli spagnoli da New Orleans, con molti cittadini statunitensi nelle sue fila.
Il Trattato di Parigi del 1898, che pose fine alla guerra ispano-americana, concesse agli Stati Uniti il controllo di Cuba (insieme a Filippine, Guam e Porto Rico). Sei anni dopo, gli Stati Uniti dichiararono di lasciare Cuba ai cubani e vigilarono la creazione di una repubblica cubana; il primo presidente di questa Cuba indipendente fu un cittadino naturalizzato americano. Nell’ambito dei negoziati per la creazione di una Cuba libera, gli Stati Uniti approvarono l’emendamento Platt (le cui disposizioni furono inserite nella Costituzione cubana) che concedeva agli Stati Uniti il diritto di intervenire militarmente a Cuba per difendere i propri interessi. L’atto legislativo stabilì anche il controllo statunitense sull’enclave di Guantanamo Bay, un’area di 116 chilometri quadrati situata nella punta sud-est dell’isola di Cuba.
Nei successivi 25 anni, gli Stati Uniti fecero sbarcare le truppe tre volte per proteggere i propri interessi e stabilizzare il Paese durante una serie di cambi di regime. Nel 1959, Fidel Castro rovesciò il dittatore Fulgencio Batista, sostenuto dagli States. Il disastro della Baia dei Porci del 1962 fu l’ultima volta in cui gli Usa intervennero militarmente.
Scommettere su Cuba
Oggi il Paese è in rovina e sta affrontando una grave crisi economica, politica e sociale, una tragedia frutto di decenni di comunismo e delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Ma prima dell’insediamento di Castro, il Paese era una sorta di lussuoso parco giochi americano. Cuba era la destinazione preferita dei ricchi e famosi per divertirsi e giocare d’azzardo. I mafiosi americani trasformarono L’Avana in un paradiso per il riciclaggio di denaro. La città stessa era uno splendido mix di stili architettonici.
Ora il Paese è nel bel mezzo di un boom dell’edilizia alberghiera e di un aumento significativo nella costruzione dei campi da golf. Si prevede che entro il 2030 saranno completate circa 100 mila nuove camere d’albergo e 27 nuovi campi da golf. Il Grupo de Administración Empresarial, S.A. (Gaesa), controllato dalle forze armate, è proprietario di queste nuove strutture.
Si ipotizza che i militari cubani abbiano costruito questa infrastruttura turistica, pensando che il regime comunista finirà con la morte di Raul, il 93enne fratello di Fidel Castro. Le forze armate vanteranno diritti di proprietà di quelli che diventeranno immobili di grande valore quando le imprese e i turisti torneranno a Cuba, in quella che potrebbe essere una privatizzazione di massa alla fine del regime comunista.
Se i vertici militari di Cuba puntano sul fatto che la fine dell’era comunista a Cuba sia vicina, questa è un’occasione per l’America.
Annettere Cuba agli Stati Uniti, anziché la Groenlandia, ha molto più senso. I nuovi hotel, la splendida architettura, i nuovi campi da golf e la sua leggendaria storia di capitale del gioco d’azzardo dovrebbero essere fortemente allettanti per il nostro attuale Presidente, il quale ha una significativa presenza nel settore alberghiero, ha gestito casinò e ama molto il golf. Se a ciò si aggiungono alcune delle più grandi riserve di minerali rari e la possibilità di smantellare le stazioni d’ascolto russe e cinesi a 90 miglia dagli Stati Uniti, l’argomento diventa ancora più convincente.
Come la Groenlandia, Cuba possiede riserve di minerali grezzi rari: cobalto e nichel (rispettivamente la quinta e l’ottava riserva mondiale). L’isola più grande dei Caraibi ha uno dei più alti tassi di alfabetizzazione al mondo.
Ovviamente, tentare di impadronirsi di Cuba farebbe infuriare i nostri avversari (Russia, Cina, Venezuela) piuttosto che i nostri alleati della Nato. Cosa ne penserebbe il popolo cubano? Come per la Groenlandia, diventare parte degli Stati Uniti richiederebbe probabilmente un voto di approvazione da parte della popolazione cubana. Cuba è un Paese sovrano, quindi, a differenza della Groenlandia e dei territori precedentemente acquisiti dagli Stati Uniti, non c’è alcun Paese da cui acquistare la nazione. Cuba ha un debito pubblico che ammonta a 40 miliardi di dollari statunitensi che potremmo offrire di saldare per conto suo, un debito che sarebbe 10 volte di più (in dollari di oggi) rispetto a quanto offerto da Polk alla Spagna oltre 175 anni fa, quando era il più grande produttore di zucchero al mondo.
I cubani potrebbero leggere sulla loro traballante rete a banda larga gestita dallo Stato notizie fuorvianti su Trump che si fa beffe dello Stato di diritto e delle deportazioni nel “campo di concentramento” di El Salvador. Forse non ne sarebbero così entusiasti vedendo come se la passano i cittadini statunitensi a Puerto Rico con i loro blackout a rotazione. Ma al momento, il popolo cubano è soggetto a blackout a livello nazionale che si prevede possano solo peggiorare, il suo sistema sanitario è al collasso e la sua classe dirigente e quella medio-alta stanno emigrando il più velocemente possibile. Il reddito pro capite è di soli 7 mila dollari.
Quando il 93enne Raul morirà, il popolo cubano si troverà alla fine di un’era. È un’apertura naturale a un invito da parte di un presidente americano con una mentalità acquisitiva a finalizzare l’accordo che molti dei suoi predecessori non sono riusciti a siglare. Russia e Cina saranno indignate e risentite se Trump cambiasse rotta e perseguisse l’idea di annettere Cuba. Unicamente per detta ragione, è opportuno prendere in considerazione tale invito, e se a ciò si aggiunge il clima tropicale, 100 mila nuove camere d’albergo, alcuni casinò, decine di campi da golf, una manciata di minerali rari e l’opportunità di gettare ombra sui suoi predecessori per non aver concluso l’accordo, beh, stiamo parlando il linguaggio dell’amore di Trump, un linguaggio caratterizzato da un’enfasi sul consenso e finalizzato a creare un senso di unità intorno a lui e alle sue idee.
È qualcosa su cui riflettere. Forse quella singola stella in mezzo al rosso, al bianco e al blu della bandiera cubana può finalmente significare ciò che avrebbe dovuto simboleggiare.
(*) Tratto dal The National Interest
(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada
di Juleanna Grover (*)