Le priorità di Trump e gli svantaggi per Israele

martedì 13 maggio 2025


Osservando lo scenario attuale in Medio Oriente, la regione del mondo dove tutto sembra apparentemente sempre uguale ma dove in realtà i cambiamenti politici e le riconfigurazioni strategiche mutano velocemente, stiamo ora assistendo a un riposizionamento statunitense molto problematico per gli interessi di Israele. Dopo il lungo periodo in cui l’Amministrazione Biden aveva pesantemente influito sulla gestione della guerra tra lo Stato ebraico e Hamas occorsa a seguito dell’eccidio perpetrato da quest’ultimo il 7 ottobre 2023, cercando di imporre le proprie priorità per indirizzarne l’esito, la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni americane, era stata salutata come foriera di un netto cambiamento di rotta. Questo auspicio era fondato sulle decisioni fortemente a vantaggio di Israele che il precedente gabinetto Trump aveva preso in passato, dal riconoscimento di Gerusalemme capitale con conseguente spostamento dell’ambasciata americana, seguito da quello della sovranità di Israele sul Golan, alla cessazione dei finanziamenti americani all’Unrwa e all’autorità palestinese, dal rigettare la definizione di “occupati” per i territori in Cisgiordania, e così via.

Ma quello che fu allora, determinato soprattutto dal team che Trump aveva coagulato intorno al dossier relativo a Israele, composto da personalità fortemente vicine alle sue ragioni, non è più presente. Questa amministrazione, ha una impronta fortemente isolazionista e orientata a privilegiare interessi che massimizzino quelli americani anche a discapito di quelli di alleati storici. Si è già visto plasticamente relativamente all’approccio nei confronti dell’Europa e soprattutto per la crisi russo-ucraina. A Gaza è in corso una guerra che si trascina da un anno e mezzo e che Israele non riesce a vincere. Si tratta della guerra più lunga che ha mai combattuto e quella che, in virtù di una offensiva propagandistica senza sosta, ha maggiormente compromesso la sua reputazione. Ancora prima di diventare di nuovo presidente, Trump esortava Israele a “finish the job”, finire il lavoro, obiettivo che è ancora lontano dall’essere stato raggiunto.

Le guerre protratte non sono il pane di Trump, il quale, pochi giorni prima del suo insediamento alla Casa Bianca, inviava in Israele l’immobiliarista Steve Witkoff, come mediatore per ottenere da Benjamin Netanyahu un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi. Con la ripresa delle operazioni militari a Gaza a seguito di due mesi di tregua, ora Trump è in arrivo in Medio Oriente, dove si fermerà in Arabia Saudita, negli Emirati e in Qatar. Israele non è incluso nelle tappe. Dal mondo arabo Trump ha intenzione di ottenere ingenti investimenti negli Stati Uniti e cooperazioni che vanno dal settore energetico a quello dell’intelligenza artificiale. Gli arabi tuttavia non lo aspettano solo per discutere di affari ma per spingerlo a mettere Israele nella condizione di chiudere la guerra a Gaza. Sotto questo aspetto va evidenziata la presenza in queste settimane sia in Arabia Saudita che in Qatar del ministro degli Esteri iraniano, e l’Iran, con delusione e preoccupazione di Israele, è al centro da circa un mese di una serie di colloqui con gli Stati Uniti per trovare un accordo sul programma nucleare. Appare dunque esserci un fronte islamico unito, nonostante le divergenze storiche (e va notato come nella recente crisi tra India e Pakistan, l’Iran abbia preso le parti di un Paese che certo non considera amico) per spingere Trump a obbligare Israele a chiudere la guerra a Gaza, ovvero a negoziare con Hamas per la liberazione degli ostaggi rimanenti.

In questo senso si è mosso fin dal principio Witkoff, rompendo un tabù di tutte le amministrazioni americane precedenti, quello di incontrarsi faccia a faccia con membri di alto livello del gruppo jihadista. La linea di demarcazione tra Stati Uniti e Israele non può essere più netta. Da una parte c’è la volontà americana di negoziare a oltranza e di chiudere la guerra senza che necessariamente Hamas venga sconfitto nonostante i proclami in questo senso (è ciò che desiderano sia l’Iran che il Qatar), che era fondamentalmente la linea dell’Amministrazione Biden, con l’aggravante di trattare direttamente con i jihadisti, dall’altra quella israeliana di sconfiggere Hamas e dunque di porre fine alla sua presenza a Gaza, anche se finora non è stato possibile raggiungere l’obiettivo. Trump non concederà a Netanyahu molto tempo, il prolungarsi della guerra a Gaza, alla quale ha contribuito anche lui imponendo una tregua che ha permesso a Hamas di riallinearsi, è un intralcio per i suoi rapporti con l’Arabia Saudita e il Qatar. I progetti dei grandi investimenti arabi negli Stati Uniti, e la lusinga iraniana di grosse possibilità di lucro per gli americani se si dovesse raggiungere un accordo, privilegiano interessi opposti a quelli di Israele.


di Niram Ferretti