martedì 22 aprile 2025
Siamo certi che solo Maga e Donald Trump siano i nemici giurati del “globalism”? Oppure, per caso, l’esigenza non più rinviabile di instaurare un “nuovo ordine mondiale” sia proprio la conseguenza prodotta dai suoi squilibri devastanti e dal fallimento irreversibile del sogno di Fukuyama di “chiudere il circuito”, in merito al trionfo planetario del modello democratico, vanificato dall’avvento delle nuove autocrazie?
Di chi la colpa, se non di noi stessi, dato che abbiamo incoscientemente lasciato campo libero al Dragone giallo, attirandolo fuori dalla sua primitiva caverna con il miraggio di farlo sedere al tavolo del benessere mondiale, grazie al nostro miracolo tecnologico?
Chi, se non le nostre élite progressiste, ha permesso alla Cina di divenire la manifattura del mondo, creando in tutto l’Occidente enormi voragini occupazionali prodotte dalle Rust Belt industriali, e tutto ciò senza che si realizzasse politicamente la nostra speranza di democratizzazione del regime comunista cinese?
A tutti gli effetti, è stato il sistema capitalistico finanziario occidentale che ha lasciato la Cina arricchirsi senza limiti, né freni, ignorandone per trenta anni le continue violazioni delle regole sul commercio mondiale, cosa che ha consentito a Xi Jinping di costruire un immenso potere nazionalista attraverso il capitalismo di Stato. Per tutti questi ultimi decenni, infatti, Pechino ha finanziato con molti triliardi di yen la sua over-capacity produttiva, orientata esclusivamente all’esportazione, comprimendo all’inverosimile i propri consumi interni, per inondare tutti i mercati occidentali e mondiali dapprima con le sue merci di scarsa qualità, e a basso o bassissimo valore aggiunto, e oggi con beni tecnologici d’avanguardia, grazie agli immensi furti di proprietà intellettuale a danno dell’Occidente, perpetrati nei decenni.
Con Xi, Vladimir Putin, Narenda Modi e così via, le autocrazie con le loro nuove alleanze globali alternative (vedi Brics) sono oggi in grado di sfidare seriamente il potere del dollaro e della supremazia occidentale in campo tecnologico e militare, mettendo in crisi irreversibile le democrazie, come è successo con l’invasione russa dell’Ucraina che ha riportato la guerra in Europa. Nel nuovo quadro sistemico degli equilibri globali, la triade Usa, Cina e Russia si configura come un’alleanza di fatto di poteri revisionisti che intendono cambiare in modo radicale l’attuale ordine mondiale. Del resto, quando Putin ha deciso nel 2022 l’invasione su larga scala dell’Ucraina sapeva benissimo che, con una simile mossa, avrebbe sacrificato le relazioni con l’Occidente sull’altare del ritorno imperiale alla Grande Russia. Così come del resto una Cina sempre più nazionalista e che non nasconde ormai le sue ambizioni imperialiste al resto del mondo, ha lanciato il guanto di sfida all’Occidente sulla questione di Taiwan. A entrambi ha fatto eco il presidente Trump, sconvolgendo il sistema dei commerci mondiali con le sue richieste sui dazi, nonché sulla rivendicazione di territori come quello sulla Groenlandia e sull’ampliamento al Canada della Federazione statunitense. E se, com’è oggi di tutta evidenza, l’America intende seriamente sottrarsi ai suoi precedenti impegni internazionali, allora il resto del mondo (occidentale) non ha altra scelta, se non quella di adattarsi alla nuova configurazione globale della fine dell’egemonia americana.
Con la liquidazione della pax americana viene via anche il precedente ordine mondiale con i suoi pilastri del commercio, delle alleanze, della migrazione, del multilateralismo, della solidarietà tra le democrazie e dei diritti umani, resi indigesti ai quattro quinti del mondo dall’inquinamento wokeist delle politiche occidentali.
Più in generale, le ragioni per cui il modello autocratico sta prevalendo su quello democratico sono essenzialmente le seguenti. In primo luogo, la prevalenza del fattore “durata”, grazie al quale i regimi autocratici possono adottare strategie decennali, mentre al contrario i secondi sono obbligati a seguire le oscillazioni elettorali a breve/medio termine. Il gap sarebbe colmabile se nell’ambito dei processi democratici fosse possibile sottoscrivere accordi di programma almeno decennali (che, quindi, obbligano tutti i governi successivi a rispettarne le clausole politico-economiche e i vincoli finanziari), approvati con maggioranze parlamentari qualificate dei due terzi. L’altro aspetto che caratterizza le autocrazie è la capacità di adottare decisioni rapide e verticalizzate che, come è accaduto in Cina e Russia a danno degli oligarchi, possano imporre anche ai grandi gruppi e monopoli privati di fare un passo indietro, a beneficio dell’intera collettività.
Ma, ancora una volta, anche questo vantaggio sarebbe colmabile, se le democrazie si dotassero di un efficace schema decisionale down-top, per un’effettiva ridiscesa verso il basso delle grandi decisioni di struttura e di sistema, al fine di impedire alle oligarchie di potere, interne e internazionali, di affermare i loro interessi a discapito degli interessi più genuinamente collettivi. Il principale strumento down-top è, ovviamente, rappresentato dall’estensione massima possibile dell’istituto del referendum, ampliando le fattispecie esistenti al fine di comprendere quello di tipo consultivo e approvativo, le cui decisioni siano vincolanti per i governi e i parlamenti in carica.
Come già indicato in altri contesti, per contrastare i poteri forti non eletti e quelli autocratici legittimi, si può pensare di costituzionalizzare una sorta di dualismo elettore/assemblea, per cui la delega del primo ai parlamentari eletti non è “in bianco”, né viene data una volta per tutte.
In tal senso, si possono tecnicamente individuare meccanismi che blindino le leggi di iniziativa popolare, così come sottoscritte da un numero molto elevato di cittadini (pari ad esempio al 2 per cento degli aventi diritto al voto), elevando il Comitato promotore a interlocutore diretto di una Commissione decidente ad hoc, per cui laddove il Comitato non concordi con le modifiche proposte al testo finale dalla Commissione parlamentare possa chiedere e ottenere di sottoporre a referendum approvativo il testo originale della legge d’iniziativa popolare. Servono, però, menti illuminate e, forse, un nuovo Papa che innovi la rivoluzione etico-politica di Giovanni Paolo II.
di Maurizio Guaitoli