venerdì 18 aprile 2025
Se così fosse, il tycoon avrebbe salvato il mondo. Ma il rumor che è iniziato a circolare dopo lo scoop del New York Times, secondo cui Donald Trump avrebbe fermato Benjamin Netanyahu dal bombardare l’Iran, è una voce o poco più. Il piano operativo, secondo il giornale americano, prevedeva una settimana di bombardamenti aerei sul territorio iraniano, seguiti dall’infiltrazione di unità speciali incaricate di sabotare e distruggere i principali impianti nucleari dello Stato islamico. Ma a ridosso dell’esecuzione, è stato lo stesso presidente degli Stati Uniti, con il sostegno del suo team di sicurezza nazionale, a interrompere l’operazione, annunciando invece la volontà di riaprire un canale diplomatico con Teheran sul controverso programma atomico. La rivelazione del Nyt cita numerose fonti anonime che sarebbero a conoscenza del dossier. L’indiscrezione è arrivata (casualmente) alla vigilia dell’incontro previsto a Roma, dove sabato l’inviato speciale degli Stati Uniti, Steve Witkoff, e il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, tenteranno di riattivare il tavolo negoziale.
Trump, interrogato sul punto durante l’incontro alla Casa Bianca con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha evitato conferme sui piani militari, ma ha ribadito la disponibilità a un accordo. L’Iran, tuttavia, “non può avere un’arma atomica, è molto semplice”, ha scandito il tycoon. E se non si arriverà a un’intesa, “per loro si metterà male”. Nel frattempo, in un chiaro segnale distensivo, il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, è arrivato a Teheran per agevolare i colloqui. “Siamo in una fase cruciale di queste importanti negoziazioni, sappiamo che abbiamo poco tempo, ecco perché sono qui”, ha dichiarato. Poco prima della partenza, Grossi aveva messo in guardia sull’avanzamento del programma nucleare iraniano: “non è lontano” dal punto di svolta. “Hanno i pezzi e forse un giorno potrebbero rimetterli insieme”.
Secondo fonti d’intelligence citate dal New York Times, l’Iran sarebbe in grado di produrre fino a sei testate nucleari “in qualche mese, al massimo un anno”. Un’eventualità che ha spinto il governo di Benjamin Netanyahu a elaborare un piano d’attacco, forte dell’indebolimento strategico di Teheran dopo la decimazione della leadership di Hezbollah in Libano e la fine del sostegno logistico siriano, conseguenza della caduta di Bashar al-Assad. Un’operazione che, tuttavia, lo Stato ebraico non può condurre in autonomia. Essenziale, infatti, resta il supporto degli Stati Uniti, sia politico che operativo, in particolare per fronteggiare le inevitabili rappresaglie iraniane. Senza l’appoggio dell’intelligence – e dei razzi statunitensi – dei satelliti spia e dei bombardieri a lungo raggio, l’efficacia dell’azione israeliana risulterebbe compromessa.
In un primo momento, la proposta di Netanyahu avrebbe trovato un consenso parziale tra gli alti comandi statunitensi. Il dispiegamento dei bombardieri strategici B-2 e di due portaerei – la Carl Vinson nel Mar Arabico e la Harry S. Truman nel Mar Rosso – ufficialmente destinati a contenere le operazioni degli Houthi in Yemen, rientrava, secondo il Nyt, “anche nell’ambito del potenziale piano per sostenere Israele nella guerra con l’Iran”. Ma all’inizio di aprile, la linea della Casa Bianca è cambiata. Durante una visita a Tel Aviv, il comandante dello U.S. Central Command, generale Michael Kurilla, ha informato i vertici militari israeliani della decisione di congelare l’intervento. Il 3 aprile, Netanyahu ha contattato direttamente Trump. Il commander-in-chief, tuttavia, avrebbe rifiutato di discutere il piano per telefono, invitando invece il premier israeliano a recarsi a Washington.
E il cerchio si chiuderebbe, per il Nyt, con la visita che si è tenuta il 7 aprile. Ufficialmente, per affrontare il tema dei dazi; in realtà, per comunicare in via riservata lo stop all’attacco. Nel colloquio, secondo le fonti citate dal quotidiano newyorkese, Trump avrebbe espresso un netto rifiuto, anticipando l’intenzione di rilanciare la via diplomatica con Teheran, poi formalizzata mentre Netanyahu era ancora alla Casa Bianca.
di Redazione