lunedì 10 marzo 2025
Gli organi che si occupano di giustizia internazionale come la Corte Penale Internazionale, Cpi, e la Corte internazionale di Giustizia, Cig, ambedue con sede all’Aja nei Paesi Basi, ma la seconda organo delle Nazioni Unite, sono nate ed operano sui reati più gravi come genocidi e complessivamente sulla violazione dei Diritti Umani. Tuttavia, la Cpi è nota per i suoi fallimenti e per essere sistematicamente ignorate le sue “decisioni”, oltre che rasentare spesso una posizione politica definibile incongruente con la missione affidatagli.
Ricordo il caso Vladimir Putin, che nel marzo 2023 ha ricevuto un mandato di arresto internazionale dalla Cpi, per il reato umanitario di deportazione riferito agli abitanti ucraini del Donbass trasferiti in Russia; oppure quando la Camera preliminare I della Corte penale internazionale, ha emesso due decisioni cruciali per la situazione nello Stato di Palestina. In questo quadro a novembre 2024 ha emesso mandati di arresto per il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. Infine, il caso Njeem Osama Almasri, gennaio 2025, il così detto carnefice tunisino, rimpatriato a Tripoli dall’Italia, con effetti collaterali, una questione dai tratti decisamente politici.
Il mandato di arresto prevede che tali personaggi interessati debbano essere arrestati. Ma sappiamo che, non casualmente, sia Putin che Netanyahu, sono oggi i leader più ricercati dalla diplomazia internazionale, ma non per arrestarli, ma per condividere con loro il futuro delle strategie mondiali.
In un quadro dove anche le decisioni della Corte internazionale di giustizia, anche se sono giuridicamente vincolanti, l’organizzazione non ha il potere di farle rispettare, il Sudan, o meglio il Consiglio sovrano di transizione, Cst presieduto dal generale golpista Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, in una dichiarazione rilasciata il 6 marzo, ha denunciato alla Cig, che gli Emirati Arabi Uniti, attraverso il loro sostegno finanziario, politico e militare alle Rapid support Forces, Rsf, la fazione ribelle che ha scatenato la guerra civile nel Paese, sono complici del genocidio dei Masalit. I Masalit sono un gruppo etnico presente soprattutto nella città di Geneina, capitale del Darfur occidentale, quindi nel Sudan occidentale, ma altri gruppi che contano alcune migliaia di persone, sono presenti anche nello Stato di Al-Quadarif nel Sudan orientale e nel Darfur Meridionale. Il gruppo etnico Masalit è rintracciabile anche nel Ciad orientale.
Da parte loro gli Emirati Arabi Uniti, hanno negato categoricamente di sostenere le Rfs, ed hanno prontamente denunciato la richiesta come una strumentale trovata pubblicitaria, chiedendo alla Corte di giustizia un rigetto immediato della istanza prodotta.
Tuttavia la questione è nota da tempo; le accuse che Abu Dhabi arma le Rsf sono concrete e conclamate. La richiesta da parte delle Forze regolari sudanesi di emettere una ordinanza di emergenza, che nella terminologia della Corte viene espressa come una “misura provvisoria”, può essere considerata anche finalizzata a costringere gli Emirati a pagare le riparazioni. Infatti nella richiesta viene esplicitato il concetto che Abu Dhabi deve riparare completamente il danno causato dalle loro “azioni” in Sudan, anche risarcendo le vittime della guerra; questo è espresso nella richiesta del Governo di transizione sudanese del generale Al-Burhan, che accusa gli Emirati Arabi Uniti di non aver adempiuto ai propri obblighi ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, oltre avere causato omicidi, sfollamento forzato, violazione di proprietà privata, furto, stupro, vandalismo di edifici pubblici, nel quadro di una piena violazioni dei diritti umani. Questi atti, aggiunge il Governo di transizione, sono stati resi possibili dal sostegno fornito dagli Emirati Arabi alla milizia ribelle delle Rsf e ai gruppi di miliziani collegati.
Le accuse di forniture di armi da parte degli Emirati alle forze ribelli delle Rsf sudanesi sono state avvalorate da indagini condotte da “addetti ai lavori” delle Nazioni Unite che oltre che confermare questo smercio di armi hanno anche rilevato che il traffico comprende armi leggere, mezzi e velivoli tattici e vari sistemi di controllo che sono arrivati in Sudan tramite la rotta che passa per il Ciad. Tale situazione, che si protrae da anni, è nota a tal punto che Washington a fine 2024 ha chiesto a Abu Dhabi di interrompere il mercato delle armi con le Rsf. In cambio gli Stati Uniti avrebbero posto fine alle iniziative tese a bloccare la vendita di armi alla potenza del Golfo; una operazione economica stimata in poco meno di 1,3 miliardi di dollari. Tuttavia solo un mese fa gli osservatori statunitensi hanno confermato che gli Emirati non avevano rispettato gli accordi continuando a fornire armi ai paramilitari sudanesi.
In realtà i legami tra Emirati e Rsf sono solidi e duraturi, soprattutto perché il Sudan nella zona del Darfur, occupata dagli Rsf, è ricca di oro, con il quale i miliziani del generale Mohamed Hamdan Dagalo conosciuto come Hemetti, comprano le armi.
Inoltre, è certo che gli Emirati considerano il comandante delle Rapid Support Forces, Hemetti, come un loro uomo. Ma in questo scenario anche la Russia ha il suo ruolo, appoggiando notoriamente i ribelli sudanesi prima con i mercenari Wagner poi con i loro “eredi” le milizie dell’Africa Corps, il tutto in funzione dell’oro del Darfur fondamentale per gli impegni di Mosca nella guerra in Ucraina.
E la Corte internazionale di Giustizia, come le comunità internazionali, sembrano piuttosto frenati nell’intervenire nella tragedia del Sudan e nel genocidio dei Masalit, in un Paese investito dalla peggiore catastrofe umanitaria del Pianeta.
di Fabio Marco Fabbri