giovedì 6 marzo 2025
Mai come ora una lite ti pregiudica la vita: vedi l’incornata in mondovisione del toro Donald Trump nei confronti del picador Volodymyr Zelensky. Ovviamente, il presidente ucraino si è rifugiato al suo ritorno tra le braccia del nuovo, inedito duo Emmanuel Macron-Keir Starmer, che ha promesso di sostituirsi all’America nella guerra dell’Ucraina contro l’esercito invasore russo. Ma quanto è realistica una simile presa di posizione? Per ammissione degli stessi comandi militari ucraini, senza le forniture Usa la situazione al fronte è destinata inevitabilmente a degradarsi, anche se non c’è da attendersi uno sfondamento immediato da parte dei russi. Negli ultimi mesi, del resto, l’Armata rossa avanza lentamente, ma progressivamente, con perdite rilevanti di uomini e mezzi. Agli attuali ritmi, all’esercito di Mosca occorreranno ancora due anni per conquistare l’intera regione del Donetsk. Tuttavia, non sarà possibile per gli europei sostituire il 20 per cento dell’hardware avanzato statunitense almeno in tre aree tecnologiche: in primis la difesa aerea, e qui le alternative europee sono veramente limitate per trovare un sostituto al sistema Patriot; i missili a lunga gittata, dato che la Germania si rifiuta di fornire i suoi Taurus, e le scorte degli Storm Shadow franco-britannici sono attualmente insufficienti. Il terzo aspetto riguarda le comunicazioni satellitari e la rete di Starlink, insostituibili per la sorveglianza aerea dell’Ucraina.
Ora, la questione centrale è la seguente: può l’Europa garantire la pace a Kiev senza gli Usa? Che senso ha, tra l’altro, discutere su di una “forza di garanzia” europea senza prima aver raggiunto almeno un cessate il fuoco? Altro aspetto non secondario: come superare il veto russo su truppe europee di interposizione appartenenti a Paesi Nato, anche per quelle aree che non dovessero essere sotto controllo dell’esercito di occupazione, le più rischiose dal punto di vista degli atti di provocazione e di violazione della tregua? Per non parlare dell’impossibilità del voto all’unanimità, quando i 27 si riuniranno il 6 marzo per un Consiglio europeo straordinario sulla crisi Ucraina, a causa della posizione ungherese, favorevole ad avviare immediati colloqui di pace con Vladimir Putin. Ma il leader ungherese non è il solo, dato che il premier populista slovacco, Robert Fico, ha più volte minacciato di sospendere gli aiuti umanitari all’Ucraina, colpevole di aver tagliato i rifornimenti di gas russo a Bratislava. A breve, poi, anche la Repubblica Ceca potrebbe aggiungersi al club europeo dei filoputiniani, qualora il prossimo autunno venga rieletto il miliardario populista Andrej Babiš, candidato alle prossime presidenziali.
Quindi, in questo quadro abbastanza desolante, non resta che procedere (come del resto è stato fatto per l’euro) a una “coalition-of-the-willing” (coalizione di volenterosi) per mettere assieme una forza europea di interposizione e, con essa, un abbozzo di difesa comune, in cui i Paesi aderenti forniscano un contributo volontario a Kiev. Ma, sul primo punto, Francia e Regno Unito sono per l’invio di truppe, mentre la Polonia si chiama fuori e la Germania non si pronuncia. E questo spiega la ragione per cui l’Unione Europea venga vissuta dagli osservatori esterni come “disfunzionale”. Del resto, Viktor Orbán si è detto intenzionato a porre il veto a una bozza di risoluzione del Consiglio europeo, relativamente alla proposta di “reperire ulteriori risorse (800 miliardi in cinque anni, in base al piano presentato da Ursula von der Leyen) per una difesa comune dell’Unione”, senza specificare la modalità del ricorso all’emissione di eurobond. La soluzione individuata dalla presidente della Commissione è un tentativo per mettere tutti d’accordo, basata sui seguenti tre punti: attenuazione delle regole del Fiscal Compact, in modo da consentire agli Stati membri di fare ulteriore debito per le spese della difesa; maggiore flessibilità nell’utilizzo dei fondi regionali europei per lo sviluppo; ampliamento delle missioni della Banca europea degli investimenti, rimuovendo le clausole che le impediscono di fare prestiti (cioè, nuovo debito pubblico) ai Paesi membri per armi e munizioni.
In materia di finanziamento comune delle spese per la difesa, si pensa a uno strumento finanziario cooperativo, con una dotazione che andrebbe da 100 a 200 miliardi di euro, da sottoporre all’approvazione del summit di giugno dei ministri della difesa europei. Lo strumento, di preferenza, dovrebbe essere di tipo intergovernativo, in modo da escludere l’interferenza di Paesi contrari, rassicurando al contempo gli Stati che non aderiscono alla Nato e lasciando le porte aperte a Paesi non-Ue, come Regno Unito, Norvegia e Turchia. Ovviamente, le “coalizioni di volenterosi” non sono una panacea a tutti i mali, dato che, ad esempio, l’inasprimento ulteriore di sanzioni alla Russia necessita del voto all’unanimità. In tal senso, è scontato che Orbán metta il veto per il rinnovo delle sanzioni contro più di mille uomini d’affari e funzionari russi, mentre non è chiaro se della coalizione possano far parte la Spagna e l’Italia che hanno un contributo Nato inferiore al 2percento. All’Ue, a questo punto, dopo il de-linking voluto da Trump non resta che ricorrere alla fantasia, per inventarsi un modo nuovo di stare al mondo senza la copertura degli Usa. In merito, sarà bene ricordare che tutto ciò che Trump sta mettendo in pratica era stato compiutamente anticipato da questo quotidiano, mesi prima dello svolgimento delle elezioni presidenziali americane, con l’articolo “Le incognite del trumpismo: riscrivere la democrazia”. Informazione corretta, praticamente.
di Maurizio Guaitoli