mercoledì 5 marzo 2025
Il conflitto che ha raso al suolo Gaza, causato cinicamente da Hamas, che propagandisticamente ostenta forza con la liberazione degli ostaggi israeliani, forse è a un “punto di svolta”, anche se nutro enormi perplessità sullo sviluppo pacifico della questione. I passi verso un cessate il fuoco o tregua – per una pace siamo lontani – sono generalmente considerati a breve medio termine risolvibili solo in funzione della ricerca di soluzioni che si sono dimostrate fallimentari da molti decenni. Ma è certo che tutti gli Stati più o meno coinvolti vogliano veramente una pace con queste caratteristiche? Ad esempio, siamo certi che l’Egitto, fulcro dei confronti interarabi, guadagni da una pace tra Israele ed Hamas? Intanto va considerato che l’Egitto, o meglio il regime egiziano, ha una natura profondamente militare, tanto è che l’esercito del Cairo è considerato il più potente dell’Africa. Sin dalla rivoluzione del 1952, quando Gamal Abd el-Nasser e i suoi “ufficiali non allineati”, con un colpo di stato rovesciarono la monarchia parlamentare inserita all’interno dell’Impero ottomano fino al 1914, poi il Paese divenne un protettorato britannico, e raggiunse l’indipendenza dal 1922, questa dimensione militare è stata sempre una costante. Una dimensione militare proseguita con i successori di Nasser, Anwar al-Sadat e poi Hosni Mubarak, prima di incrinarsi con piazza Tahrir durante i tumulti della Primavera araba nel periodo 2011-2013. Questa parentesi instabile e pluralista fu poi piombata da Abdel Fattah al-Sisi, ex militare, che ha chiuso questo intermezzo instabile e pluralista con un colpo di Stato, ristabilendo le basi del regime militare. Tutt’oggi la popolazione egiziana è sotto controllo capillare dei servizi segreti, con la supremazia “dell’intelligence generale”, espressione militare che opera sia all’interno che all’esterno dell’Egitto.
In questo contesto va inserito il valico, o varco, di Rafah quindi sul ruolo fondamentale dell’Egitto nel poter gestire il sostegno umanitario agli abitanti della Striscia di Gaza, grazie alle enormi mobilitazioni di merci che si sviluppano nella città aeroportuale egiziana di Al-Arish distante da Rafah appena quaranta chilometri. Gran parte degli aiuti umanitari attraversano condizionatamente e ad intervalli questo valico, accessibile o meno in funzione delle azioni militari di Israele sulla Striscia di Gaza, e delle azioni dei miliziani di Hamas, oltre al recente traballante cessate il fuoco. In questi giorni fonti di sicurezza egiziane hanno confermato che stanno lavorando per facilitare la consegna del maggior volume possibile di aiuti umanitari a Gaza, dando priorità alla fornitura di cibo, carburante e forniture mediche per iniziare a supportare la crisi umanitaria che sta martoriando la Striscia. È innegabile, che vista la mole dei movimenti di mezzi carichi di beni di sostentamento destinati agli abitanti della Striscia di Gaza che stanziano sul confine egiziano, e vista anche la presenza di osservatori e agenzie umanitaria nella zona, il giro di affari anche trasversali che si sviluppano intorno a Rafah è di dimensioni smisurate. Si parla di seicento, settecento camion che giornalmente arrivano nell’area e stanziano sul confine egiziano, carichi di ogni genere alimentare, oltre ai mezzi di supporto sanitario. Un giro di particolari affari che orbita anche intorno ai vari blocchi del confine; in questo contesto centinaia di mezzi carichi di alimenti e anche altre attrezzature, magari per uso militare, che nel periodo di blocco del confine, ma anche a confine aperto, smerciano il contenuto dei camion in canali spesso poco noti e funzionali a gruppi organizzati di vario profilo, soprattutto, come accusa Israele, destinati ad Hamas.
Infatti Tel Aviv-Gerusalemme afferma che in questo gigantesco traffico di mezzi è fiorente anche il mercato delle armi per gli islamisti di Hamas. E proprio il Cairo è il centro di discussione sul futuro di Gaza; nel vertice di martedì 4 marzo i paesi arabi hanno escluso ogni spostamento di popolazioni proposto da Donald Trump e hanno concordato una posizione comune di fronte a quella che considerano una provocazione di Washington. Infatti da almeno un mese l’Egitto ha predisposto un piano per impedire il trasferimento della popolazione palestinese all’interno del territorio egiziano, fattore considerato una line rossa invalicabile; si parla di circa due milioni e mezzo di sfollati che secondo la proposta del Cairo, si basa su un sistema di rotazione. In pratica dovrebbero esserci tre fasi: la prima che durerà sei mesi si concentrerà sulla rimozione dei detriti, sullo sminamento e sulla fornitura di alloggi temporanei per ospitare almeno un milione e mezzo di persone; poi la ricostruzione di infrastrutture essenziali e alloggi permanenti, l’ultima comprenderà un porto commerciale e un aeroporto ed altre infrastrutture. Insomma, nonostante apparenti idee chiare, lo scenario non è particolarmente limpido anche valutando il giro di affari nutrito dal dramma di Gaza, che orbita con un raggio di svariati chilometri intorno al varco di Rafah.
Al vertice dell’organizzazione panaraba tenuto martedì sono intervenuti, tra gli altri, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa e anche il nuovo presidente golpista ex jihadista siriano Ahmed Hussein al-Sharaa; in pratica la discussione si è basata sul piano per la ricostruzione della Striscia di Gaza che emargina Hamas unificando i palestinesi sotto l’egida dell’Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina, di cui il movimento islamista non fa parte. La Striscia di Gaza sarebbe amministrata transitoriamente da un comitato di tecnocrati palestinesi, prima che l’Autorità nazionale palestinese ne riprenda il controllo. Un progetto di matrice egiziana che prevede una spesa di cinquantatré miliardi di dollari in cinque anni, una stima simile a quella prevista dall’Onu, per ricostruire la Striscia di Gaza. Il presidente al-Sisi ha altresì affermato che i quasi due milioni e mezzo di residenti di Gaza rimarranno sulla loro terra, in risposta al piano del presidente degli Stati Uniti di trasferirli in Egitto e Giordania e trasformare la Striscia nella “Riviera del Medio Oriente”. Insomma, una alternativa al piano di Trump di porre il territorio sotto il controllo americano, proposta già respinto da Israele. Tuttavia visti gli sviluppi dei rapporti scaturiti tra Usa e Ucraina e la possibilità che il Canale di Panama torni sotto il controllo statunitense, non escluderei nemmeno una Gaza turistica, anche valutando non assolutamente determinanti le decisioni dei leader arabi al Cairo. In ogni caso Rafah rafforzerà enormemente la sua posizione come tentacolare baricentro del business regionale.
di Fabio Marco Fabbri