martedì 25 febbraio 2025
L’apertura della Casa Bianca verso il Cremlino nelle ultime due settimane ha costretto Mosca a modificare il tono della sua comunicazione circa la contrapposizione con l’Occidente e persino il contenuto delle sue campagne propagandistiche. Il cliché dell’ostilità americana, un tema da tempo presente nella narrazione di Mosca, è improvvisamente scomparso, così come l’affermazione di voler smantellare l’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti. Nei media mainstream russi non è ammessa alcuna critica allo stile politico del presidente statunitense Donald Trump, e la maggior parte dei blogger “patriottici” viene obbligata a esprimere rispetto per la sua capacità di fare la differenza. Tuttavia, il discorso sulla necessità di sostenere e vincere la guerra della Russia contro l’Ucraina resta invariato, tanto che l’opinione pubblica, pur mostrando un crescente sostegno ai negoziati di pace, continua a essere fiduciosa che la guerra finirà con una vittoria russa.
L’entusiasmo per l’incontro a Riad, in Arabia Saudita, tra le due delegazioni guidate dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e dal segretario di Stato statunitense Marco Rubio si è attenuato, lasciando spazio a valutazioni più sobrie sulle profonde divergenze tra le parti. È evidente che queste differenze richiederanno molto più di un singolo incontro a Riad per essere superate, soprattutto perché finora l’Ucraina è stata esclusa dai colloqui. Inoltre, nella discussione non è emersa alcuna indicazione di compromessi o concessioni che la Russia potrebbe offrire o accettare nei negoziati di pace. Gli analisti russi, piuttosto, insistono sul fatto che qualsiasi coinvolgimento della Nato nell’attuazione di un accordo di pace o nella fornitura di garanzie di sicurezza all’Ucraina è inaccettabile per Mosca.
Uno degli argomenti ricorrenti contro la proposta di un cessate il fuoco come punto di partenza per ulteriori negoziati è che una pausa nei combattimenti consentirebbe all’Ucraina di ricostruire e persino potenziare le capacità operative delle sue forze armate. La responsabilità della fornitura di armi all’Ucraina è ora attribuita direttamente all’Europa, anziché agli Stati Uniti, che fino a poco tempo fa erano considerati il principale motore della guerra russa contro l’Ucraina. Alcuni analisti russi ipotizzano persino che l’Europa possa avere una propria volontà politica e autonomia decisionale − un’idea solitamente respinta da Mosca − invece di seguire obbedientemente la leadership statunitense. Putin sosteneva questa narrativa prima che la frattura nell’unità transatlantica si manifestasse alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco lo scorso fine settimana. Contro molte aspettative, il dibattito a Monaco non si è concentrato su un piano di pace per la guerra della Russia contro l’Ucraina, bensì sulla divergenza dei valori fondamentali tra Stati Uniti ed Europa. I commentatori russi mettono in dubbio la sopravvivenza della Nato e, per argomentare, fanno riferimento a quanto accade nella regione baltica. La coalizione emergente tra gli Stati nordici e baltici non sta aspettando la leadership o la partecipazione degli Stati Uniti per rafforzare le pattuglie marittime volte a monitorare le attività russe sospette.
Inoltre, la vulnerabilità delle rotte di esportazione russe è evidenziata da una serie di esplosioni su petroliere della sua “flotta ombra” nelle ultime settimane, dopo l’affondamento della nave da trasporto militare Ursa Major alla fine dello scorso dicembre.
Mosca ha espresso la volontà di includere attori e questioni legati al Medio Oriente nel nuovo dialogo con gli Stati Uniti, escludendo però il coinvolgimento dell’Ucraina e dell’Europa. Tuttavia, la capacità della Russia di contribuire in modo significativo alle rapide riconfigurazioni della regione è limitata dalla perdita di un alleato chiave in Siria. Mosca ha cercato di minimizzare la sua partnership con l’Iran, che rifiuta qualsiasi possibilità di negoziati con l’amministrazione Trump.
A differenza della Cina, che ha espresso pieno sostegno alla posizione araba sulla ricostruzione di Gaza, Mosca è riluttante a opporsi all’iniziativa avanzata da Trump. È desiderosa di coltivare i legami con l’Arabia Saudita, ma ha poco da offrire al principe ereditario Mohammed bin Salman, il quale ha acquisito un ruolo centrale nei negoziati grazie ai suoi rapporti con l’amministrazione Trump.
La questione cruciale per il mantenimento dell’influenza russa in Medio Oriente riguarda l’accesso alle due basi militari in Siria. L’offerta presentata ad Ahmed al-Sharaa, che sta consolidando la propria autorità come nuovo presidente, non sembra abbastanza generosa. Un attacco con droni su piccola scala alla base aerea di Chmejmim il 18 febbraio ha dimostrato che la ridotta guarnigione russa è esposta a pressioni dirette. Mosca sospetta che sia la Turchia a detenere il potere decisionale sul futuro delle basi, ma fatica a comprendere la complessità della strategia di Ankara nei confronti del nuovo regime di Damasco e delle fazioni curde nel nord-est della Siria. Una sorpresa spiacevole per Mosca è stato l’incontro tra il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan nello stesso giorno in cui i negoziatori statunitensi e russi si riunivano a Riad. I commentatori russi hanno criticato la duplicità turca, ipotizzando che la sintonia personale tra Putin ed Erdogan sia ormai svanita.
La velocità dei riallineamenti politici in Medio Oriente, in Europa e, in particolare, a Washington è così rapida che i decisori russi faticano a tenere il passo. Tuttavia, il Cremlino presume che, mentre gli altri si affrettano, esso possa esercitare una pazienza strategica e ottenere vantaggi rifiutandosi di modificare la propria posizione e raccogliendo nuove concessioni. Le operazioni militari efficaci sono viste come la principale fonte di forza di questa posizione intransigente. Lo Stato Maggiore russo riporta la “liberazione” di circa 600 chilometri quadrati dall’inizio dell’anno, come se questo modesto guadagno rappresentasse un passo decisivo verso la vittoria. La persistenza della Russia nella sua invasione dell’Ucraina dovrebbe spingere gli Stati europei a investire di più nella propria difesa e nel sostegno a Kyiv, e ricordare all’amministrazione Trump che negoziare da una posizione di debolezza non porta mai alla vittoria.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
di Renato Caputo (*)