giovedì 13 febbraio 2025
È iniziato il 2025, e come designato a fine marzo 2024, durante il Forum dell’Onu sui diritti delle donne, l’Arabia Saudita ha iniziato a presiedere fino a fine 2026, la UnCsw ovvero la Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne. La designazione e votazione è avvenuta come una formalità, in quanto la candidatura della monarchia saudita è stata appoggiata da 47 membri sui 54 che compongono il Consiglio economico e sociale dell’Onu. Inoltre, non ci sono state proposte alternative. Ciò ha portato i sauditi in una posizione di leadership nell’ambito del comitato tecnico. Tuttavia numerose perplessità sono nate a causa della condizione che proprio le donne vivono nel regno dei Saud. Tale situazione è sembrata a occhi, non solo occidentali, tendenzialmente comica, o meglio tragicomica, vista la quasi assente libertà riservata alle donne saudite, e in generale a quelle arabo-musulmane, in un Paese noto soprattutto per la discriminazione nei confronti del genere femminile.
Il neo presidente della UnCsw, Abdulaziz Alwasil, già ambasciatore saudita presso le Nazioni Unite, ora rappresenta il vertice dell’organismo che si deve occupare dell’uguaglianza di genere in tutto il mondo per l’anno 2025/26. Così Alwasil è diventato il primo rappresentante dell’Arabia Saudita a guidare il comitato dalla sua istituzione nel 1946. I sauditi aderirono alla “Commissione” solo nel 2017. Un quadro quello attuale della condizione femminile in Arabia Saudita, che non assicura una trasparenza e una prospettiva ben definita per il genere femminile, se si considerano le disastrose condizioni in cui la monarchia del Golfo gestisce il concetto di “uguaglianza di genere”. Anche osservando che il Global Gender Gap Index, che mette a confronto la parità di genere in 146 economie, posiziona il Paese alla 131ª posizione. In pratica, la monarchia saudita di confessione sunnita e di corrente wahabita, rappresentata dagli ulama, ha nella legge islamica la Shari’a, la linea guida nei rapporti con il mondo femminile. In questo contesto, la moglie ha l’obbligo di obbedire al marito, in “maniera ragionevole”.
Contestualmente il marito, in funzione del livello di obbedienza della moglie, ha il dovere di regolare il sostegno finanziario. Quindi la cifra che erogherà il marito per il sostentamento è direttamente proporzionale all’obbedienza della moglie. Ad esempio il rifiuto della moglie di avere rapporti intimi può costituire, per legge, la motivazione di togliere il sostegno economico alla moglie. Inoltre, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, in cinquantasette Paesi quasi una donna su due è privata delle libertà relative al proprio corpo: come sui rapporti sessuali, o sull’uso dei contraccettivi o anche sulla possibilità di ricorrere all’assistenza sanitaria. Tuttavia l’avvento al potere di Mohammad bin Salman Al Sa’ud, come capo di Governo, nonché come principe ereditario, ha portato a notevoli miglioramenti della condizione femminile. Infatti, le donne si sono affermate in contesti ai quali prima erano interdette. Così dal 2018 alle donne è consentito prendere la patente e guidare anche da sole. Non hanno più l’obbligo, ma è una scelta, di indossare l’abaya o il velo in ambienti pubblici, e possono avere il passaporto, quindi uscire dal Paese abbastanza liberamente. Inoltre, sono state aperte sale cinematografiche dove donne e uomini possono assistere insieme a proiezioni o spettacoli.
Comunque è repressa ogni espressione femminile che faccia riferimento al femminismo. Salma al-Shehab nel 2022 fu condannata a trentaquattro anni di carcere per avere espresso considerazioni sui diritti delle donne sul suo account X. Tuttavia proprio Mohammad bin Salman Al Sa’ud che si era presentato come progressista, nel tracciare le linee del suo Codice penale ha reso reati la libertà di espressione, di pensiero e di religione, l’aborto e l’omosessualità. Inoltre, la pena di morte è codificata come principale strumento di repressione oltre alle pene corporali, come le torture. Questa presidenza della “Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne”, data a un saudita, chiaramente manifesta molte contraddizioni, in quanto è palese l’abisso che esiste tra lo “spirito” costitutivo dell’UnCsw e la realtà che esiste in Arabia Saudita circa la protezione e la promozione dei diritti delle donne. Un divario enorme, attualmente incolmabile, che sottolinea nuovamente i paradossi che rappresentano spesso le organizzazioni internazionali. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, occorreranno oltre 280 anni per raggiungere la parità di genere. Ma è difficile condividere questo dato quando si ha la religione come parametro relazionale.
La rappresentante di Amnesty International alle Nazioni Unite, Sherine Tadros, ha dichiarato che l’Arabia Saudita detiene un “pessimo record” relativamente alla protezione dei diritti delle donne, evidenziando la grande disparità tra le aspirazioni della Commissione e la realtà vissuta quotidianamente dalle donne di questo Paese. Ciò lo confermano le leggi, presenti in 20 Paesi e territori, che permettono allo stupratore di sposare la propria vittima per sottrarsi alla configurazione del reato, e in alti 43 Paesi dove non vi è alcuna norma a tutela delle donne che subiscono stupro coniugale. Come affermato dalla Tadros, “il Paese non può dimostrare il proprio impegno a favore dei diritti delle donne semplicemente assumendo un ruolo di leadership all’interno della commissione”. La realtà dei fatti è che oltre 30 Paesi, religiosamente identificabili, impongono, ancora, restrizioni agli spostamenti delle donne fuori casa. Trascurando di trattare, per ora, contesti non lontani da questi dove le mutilazioni genitali femminili sono praticate per consuetudine e accettate dalle “leggi” del Paese.
di Domiziana Fabbri