venerdì 7 febbraio 2025
L’Italia è la vera e unica frontiera europea con Africa, Balcani turcofoni, e quindi con il Mediterraneo. Purtroppo, la politica dell’Unione europea guarda il dito e non la luna. Così capita che al malato e decadente potere europeo piaccia più vedere l’Italia in ginocchio, che non comprendere come lo Stivale debba contemperare la propria sopravvivenza sia resistendo alle pressioni di Bruxelles che cercando di non farsi nemici nel Mediterraneo. Quest’ultimo è tornato sotto il quasi totale controllo ottomano.
La Turchia chiede rispetto ai propri confinanti e, quando non lo riceve o ravvisa offese, ha gli strumenti economici, militari e migrazionali per imporre le proprie condizioni. Ma questo aspetto non sembra turbi i sonni di Bruxelles e nemmeno di Davos, o dei vari poteri finanziari europei ben arroccati nelle grandi città olandesi, belghe e del nord della Germania. Dove pensano ancora di poter condizionare i turchi e gli islamici in generale, e forse non si rendono conto (ma un po’ lo sanno) che molti migranti in Germania non fanno più gli inservienti o i tassisti, ma hanno interessi nel trenta per cento della media impresa tedesca. E, spiace ricordarlo, in Germania le imprese turche vanno bene mentre buona parte delle tedesche sono in forti difficoltà.
Mentre l’Unione Europea è sempre più insensibile verso le difficoltà dei propri lavoratori, diversamente la Turchia è bancariamente vicina ai propri cittadini all’estero. Ankara ha sconfitto Bruxelles, ma l’Europa preferisce prendere a ceffoni l’Italia: un po’ come il marito senza soldi che s’ubriaca e picchia la moglie, perché è facile prendersela con un soggetto debole piuttosto che mostrare i muscoli con un forte e ricco competitore economico. Il progetto della Turchia è sempre lo stesso da più di mille anni, e si ripete e si rinnova nel tempo: ovvero annettere la valle del Danubio, mettere in sicurezza la Crimea con accordi con la Federazione Russa e controllare militarmente il Mediterraneo; è la strategia turca perfettamente coerente con l’antica politica ottomana. Certo Ankara non fa la guerra a tedeschi, austriaci, olandesi e danesi, ma grazie all’intraprendenza dell’imprenditoria turca riesce a conquistare le medie imprese dei paesi economicamente influenti in Europa.
Di tutta risposta i santuari del potere politico dell’Ue (ed anche la corte internazionale) preferiscono prendere a calci l’Italia, piuttosto che comprendere che il Belpaese opera una politica estera “andreottiana” anche per il bene dell’Europa. E chiediamoci perché l’Italia non abbia patito attentati islamici, come invece successo per Francia, Germania e dintorni. Probabilmente anche per i buoni rapporti che i governi del Belpaese hanno sempre intrattenuto con la Turchia in primis, e poi con tutti i paesi arabi, compreso quel Magreb oggi tornato sotto l’ala protettrice ottomana.
Turcofoni uniti
Vale la pena rammentare come l’economia della vicina Albania, non ancora entrata in Ue (e forse mai avverrà), sia sotto l’egida dei poteri bancari turchi. Ne deriva che un rapporto di buon vicinato con l’Albania è giusto lo decida la politica e non la magistratura. Rapporto che si costruisce anche offrendo lavoro e collaborazione a chi governa Tirana, e lo fa godendo di una quasi parentela con Ankara.
La centralità della Turchia, nel quadrante mediorientale e come vero confine via terra e mare con l’Europa, ha un prezzo: ma Bruxelles ignora volutamente il pedaggio o, peggio, preferisce incolpare l’Italia dei suoi buoni rapporti con le nazioni che determinano le sorti del Mediterraneo. L’Europa è debole (anzi inesistente) politicamente e a dirigerla e condizionarla c’è un fritto misto di salotti elitari e finanziari, tanto influenti su magistratura ed editoria e poco inclini a comprendere i contrasti sociali, le necessità lavorative e che senza la riattivazione dell’ascensore sociale non c’è futuro.
Ed allora come può credere un Vecchio Continente, cotanto malato, d’imporre le proprie volontà a Turchia e Russia? Queste ultime realtà sono per vocazione millenaria due imperi, e gli imperi nascono per volontà dei popoli e per la necessità di sopravvivenza degli stessi. Ma a Bruxelles, dove credono che il potere possa esprimersi solo strimpellando sulla tastiera del computer d’una banca, non vogliono comprendere che avere buoni rapporti con Albania e nord Africa significa salvare le terga al Vecchio, ricco, flaccido e frugale erede del Sacro Romano Impero dei germanici.
Bruxelles sta dimostrandosi peggiore di Londra che, per non esporsi contro l’Impero Ottomano, convinceva nel 1911 l’Italia a fare la guerra Italo-Turca su proprio segreto mandato. Se fosse vero che l’Ue ha a cuore le sorti dei migranti, allora direbbe all’Italia d’istituire un protettorato europeo in Libia. Ma la cosa non piacerebbe ai francesi e forse nemmeno a tedeschi, olandesi e belgi: perché malignerebbero che così il Belpaese avrebbe maggior agio su petrolio e gas naturale.
Ecco che l’Ue si comporta come Londra che ha loro insegnato circa centocinquant’anni fa, ovvero tenere la Libia politicamente in sospeso. Ma la Libia di oggi non è quella delle tribù di oltre un secolo fa, e poi la Turchia si è gettata alle spalle la parentesi di debolezza: Ankara è tornata a controllare il Magreb. Ed Erdogan si sta dimostrando buon discendente di Osman, ricordando nuovamente a francesi, tedeschi e polacchi che dopo Nicopoli non si può più scorrazzare sull’altro versante del Danubio.
Poi la Turchia di oggi è alleata della Russia, anche se a Parigi pensano ancora siano possibili le guerre in Crimea per togliere a Mosca il controllo dei luoghi santi della cristianità: ma la storia è tanto cambiata da quel lontano 1853, quando Impero Ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna guerreggiavano contro l’Impero Russo. Erdogan s’è accordato con Putin sia sulla valle danubiana che sulla Crimea, e lo ha fatto infischiandosene di Parigi, Londra e Bruxelles. Chi controlla il Don controlla i flussi commerciali che dal Mar Nero si spostano nella piattaforma continentale eurasiatica: questo è affare turco e russo, non certo di Parigi.
E poi c’è il “Mavi Vatan”, la “Patria Blu” turca, che si rinnova con il governo Erdogan nel riprendere le coste mediterranee mediorientali ed africane, e tra gli obiettivi ci sono anche Cipro, Creta e le isole egee. Non dimentichiamo che Mosca s’è già spartita con Ankara anche l’influenza balcanica in campo economico e militare: per esempio la Turchia detiene l’appalto d’addestramento dell’esercito albanese. Poi non scordiamoci che Ankara gode di fiducia finanziaria e sponsorizzazioni da parte di ricchi paesi arabi come il Qatar.
Spazi d’egemonia volutamente lasciati vuoti da Washington, perché è utile anche agli Usa permettere ad Ankara di giocare il ruolo di mediatore tra le faglie d’eventuali conflittualità. Un gioco comodo a tutti, perché da sempre fragili gli equilibri su cui regge la politica estera di ogni paese mediorientale: in quell’area la Turchia autorevole si dimostra utile a tutti. L’utilità islamica della Turchia è pari a quella cristiana di Roma, del Vaticano: entità da cui non si può prescindere, e questo lo sanno bene anche i più pervicaci potenti del finanziario e cibernetico.
Poi c’è la gestione Trump, che andrà certamente a ridisegnare le aree d’egemonia europee ed Usa, ben conscia che non bisogna entrare nelle questioni caucasiche e nei rapporti tra Ankara e Mosca: perché il Caucaso è un giardino di casa comune a Russia e Turchia, un equilibrio che è bene s’aggiustino tra loro.
E se a Bruxelles ci fosse un po’ più di sale in zucca, capirebbero che è giunta l’ora di togliere le catene all’Italia, permettendole di gestire i rapporti con la Libia senza i condizionamenti di Parigi. Perché la questione Al-Masri è solo l’ultima, e forse la più stupida, creata per stroncare i rapporti italo-libici. Dimenticando che l’Italia sarebbe la più qualificata a gestire la vertenza libica, anche dialogando con la Turchia che sta definendo i propri nuovi confini marittimi.
Gheddafi e Al-Masri
Forse sarebbe il caso di ricordare una storiella che definisce tutta l’insipienza francese ed europea nella gestione dei rapporti con il Magreb, ed in particolare con la Libia. Correvano i primi anni del terzo millennio, e Mu’ammar Gheddafi sapeva che ben presto avrebbe dovuto affidare ad un “lodo democratico” (forse elezioni) il cambio di classe dirigente nella sua Libia; conscio che gran parte del popolo avrebbe affidato il ruolo a Saif, figlio del Rais.
Intanto qualcuno suggeriva a Gheddafi di prevedere il peggio: ovvero un colpo di stato, una rivoluzione, casomai finanziata dagli stessi 007 finanziari che buttarono giù Bettino Craxi nel 1992. Gheddafi rifletteva e ricordava, gli sembra avvenuta appena ieri la riunione del 1967, nel Grand Hotel italiano di Abano Terme: dove gli emissari del generale italiano Gianadelio Maletti e quelli del suo omologo francese Alexandre de Marenches davano al giovane ufficiale libico risorse necessarie a buttare giù il debole re Idris: operazione che Italia e Francia fecero con l’assenso del russo Kosygin e sotto il benevolo silenzio di Henry Kissinger. Andreotti poi confessava “l’Italia ha una amante libica…e una moglie americana”.
Il risultato non si faceva attendere: per circa quarant’anni Italia e Francia giocavano il ruolo dei ladri di Pisa che, litigano di giorno per poi di notte rubare insieme. Per rendere credibile il ruolo, Gheddafi doveva pubblicamente parlare male d’Italia e Francia: ma senza Eni ed Elf Aquitaine non muoveva nemmeno un passo negli insidiosi ma ricchi mercati petroliferi occidentali. Dopo il 2000 gli equilibri erano assai diversi, perché tramontati referenti e coperture: basti solo pensare che non c’era più l’Unione Sovietica, Putin era impegnato a risolvere i tanti problemi interni cagionati dalla gestione Eltsin e non poteva ancora esporsi in Nord Africa. Con una Russia forte ci sarebbero mai state le “primavere arabe” finanziate da Soros e benedette dal Pentagono dei Clinton.
Invece l’Occidente “democratico” ha approfittato del momento, incendiando il mondo arabo dal Medioriente al nord Africa. Siamo nel 2008 e, complice la grande crisi economica, Gheddafi si sincerava personalmente che in Francia avrebbe potuto consumare la vecchiaia, l’esilio dorato: perché da più di duecento anni la “grande democrazia europea” non nega mai ospitalità a chi per motivi politici abbandona (o fugge) la propria patria. Gheddafi aveva da almeno due decenni dismesso i propri investimenti in Italia, dopo che gli intrighi bancari di Enrico Cuccia lo avevano messo fuori dal pacchetto azionario Fiat. Qualche cosa era rimasta tra Roma e Perugia, ma solo perché un suo figlioletto giocava a calcio. Di fatto Gheddafi aveva affidato la gestione dei suoi incalcolabili patrimoni (fondi sovrani, danaro, oro, pietre preziose, commodity, privative, azioni, obbligazioni…) ai più importanti consulenti finanziari di Francia: banchieri legati a fil doppio con la politica, uomini conosciuti in tutto il pianeta come esponenti del potere bancario francese.
Il patrimonio di Gheddafi faceva gola a troppi anche in Italia, dove possedeva ancora discrete partecipazioni dal turismo al calcio, dall’industria alle banche. I gruppi che gestivano i patrimoni del rais disponevano di studi legali in grado di far sparire ogni traccia di quei beni, soprattutto in caso d’estinzione di Gheddafi e famiglia. A governare l’Italia c’era Silvio Berlusconi, mentre all’Eliseo “regnava” Nicolas Sarkozy. Sull’onda delle primavere arabe, i gruppi di pressione finanziaria iniziavano a suggerire ai governanti che “i mercati premierebbero un intervento militare umanitario in Libia”. Il presidente italiano e quello francese non sapevano letteralmente che fare. Intanto i gruppi economici che avevano appoggiato l’ascesa di Sarkozy chiedevano guerra alla Libia di Gheddafi. Sarkozy approva l’attacco alla Libia, ben conscio delle trame dei banchieri francesi. Iniziavano i bombardamenti, e Gheddafi aveva capito d’essere stato gabbato. Quindi cercava con i suoi fedelissimi di costruirsi una roccaforte nella Sirte. Però dal confinante Mali erano entrate in Libia le feroci milizie mercenarie, ben armate e formate da ex militari della Legion Etrangere: contractor specializzati che le multinazionali (soprattutto francesi, olandesi e belghe) usano per “mettere in sicurezza” i territori estrattivi del centro Africa. Così Gheddafi veniva velocemente localizzato, neutralizzato e barbaramente ucciso. Nessun esilio dorato e, soprattutto, l’enorme tesoro del rais veniva volatilizzato: solo in Italia le autorità sequestravano (su spinta Onu) un alberghetto, una villetta e qualche inezia di poco conto. Ma i fondi sovrani depositati in Francia sparivano nel nulla, nella totale ovattata omertà delle grandi famiglie della finanza. Ma c’è uno scomodo testimone che potrebbe parlare, non accettando la sua estromissione dalla politica: Nicolas Sarkozy potrebbe non più gradire che ricada solo su di lui la responsabilità della guerra alla Libia, mentre i potenti della finanza si sono spartiti i fondi del Rais.
La Libia fa ancora gola, così ieri si scatenava l’arma mediatico-giudiziaria contro Nicolas Sarkozy, con accuse, condanna dell’opinione pubblica, reclusione. Tutto per scongiurare che Nicolas riveli chi sono i banchieri che hanno approfittato delle “primavere arabe”?
Oggi che l’Italia potrebbe ancora fare tanto con la Libia, scatta la trappola Al-Masri, pianificata in quel vecchio verminaio che è l’Europa mediatico-giudiziaria nemica della politica.
di Ruggiero Capone