Trump è davvero il nuovo McKinley?

martedì 28 gennaio 2025


L’affinità del 47° presidente con il 25° è comprensibile, anche se non del tutto accurata

All’apparenza, Donald Trump e William McKinley dell’Ohio sembrano essere la strana coppia della storia presidenziale americana. Trump è audace, spavaldo, egocentrico, a volte si lascia andare a espressioni crude ed è noto per i suoi eccessi visionari. McKinley, il 25° presidente degli Stati Uniti, era mite, affabile, cauto nel pensiero e nell’azione, sempre disposto a lasciare che altri si prendessero il merito dei buoni risultati, purché ottenesse ciò che voleva. Ora, 123 anni dopo l’uccisione di McKinley da parte di un assassino a soli cinque mesi dal suo secondo mandato, Trump sta cercando di salvare l’ohioano da una relativa oscurità storica e di emularlo come uomo di visione e grandezza americana. Nel suo discorso di insediamento del 20 gennaio, Trump ha definito McKinley un “grande presidente” che “ha reso il nostro Paese molto ricco grazie ai dazi e al suo talento”. Inoltre, Trump ha firmato un ordine esecutivo che ripristina il nome di McKinley su quella montagna dell’Alaska conosciuta per più di un secolo come Mount McKinley, fino a quando non è stato cambiato in Denali dal presidente Barack Obama nel 2015 a seguito delle insistenti richieste dei nativi dell’Alaska. 

Anche una sommaria analisi della presidenza McKinley indica che Trump non è fuori luogo nel suggerire che l’ohioano meriti una statura più elevata nella storia di quella che generalmente gli viene attribuita. E si ravvisano altri elementi di verità nella sua interpretazione dell’eredità di McKinley. Ci sono però anche alcune discrepanze, e la loro analisi potrebbe fornire qualche spunto per capire la visione che Trump ha del suo tempo e di se stesso. McKinley non spicca nei periodici sondaggi accademici sulle reputazioni presidenziali che sono considerati nel loro insieme come il giudizio storico sulle performance presidenziali. In sette dei più importanti di questi sondaggi, da quando Arthur Schlesinger Sr. ne è stato il pioniere nel 1948, l’ohioano si è classificato, a seconda dei casi, al 14°, 15° e 16° posto, al di sotto anche di presidenti mediocri o falliti come Chester Arthur, Martin Van Buren, Rutherford Hayes e Grover Cleveland. (Anche se McKinley ricopre l’11° posto in un sondaggio del Chicago Tribune del 1982, posizione che probabilmente è più vicina a ciò che merita.)

Tutto sommato, non si può negare che si siano verificati eventi epocali durante la presidenza di McKinley o che l’America sia entrata in una nuova e audace era di crescita economica e forza globale. In effetti, pochi capi di governo hanno presieduto a così tanti sviluppi cruciali in così tante aree: l’adozione del gold standard come strumento per la stabilità monetaria, l’annessione delle Hawaii, la distruzione dell’impero spagnolo e il consolidamento dell’incontrastata sfera d’influenza caraibica dell’America, la liberazione di Cuba dal dominio spagnolo, la spinta verso l’Asia attraverso l’acquisizione delle Filippine e di Guam, l’emergere dell’America come la più grande nazione industriale del mondo e altro ancora. Ma soprattutto, l’America divenne un impero sotto la guida di McKinley. Come lui scrisse in un promemoria mentre la guerra con la Spagna progrediva: “Nel condurre la guerra (...) dobbiamo mantenere tutto ciò che otteniamo; quando la guerra sarà finita, dovremo mantenere ciò che vogliamo”. Alla fine volle tutto ciò che aveva ottenuto, tranne Cuba, alla quale gli americani avevano promesso l’indipendenza all’inizio della guerra.

Non è difficile capire come Trump, dopo aver familiarizzato con la storia di McKinley, possa abbracciarla come modello per la propria leadership alla Casa Bianca, e come stantuffo retorico per rafforzare la propria determinazione donchisciottesca ad acquisire la Groenlandia con tattiche di bullismo o la zona del Canale di Panama con azioni militari, se necessario. In effetti, Trump sembra spesso rifarsi proprio all’era di McKinley quando parla, come ha fatto nel suo discorso di insediamento, di “nuove vette di vittoria e successo” per una Nazione che “accresce la nostra ricchezza, espande il nostro territorio, costruisce le nostre città (...) e porta la nostra bandiera verso nuovi e splendidi orizzonti”. Ma il 2025 non è il 1898, e la Groenlandia di oggi non è la Cuba dei tempi di McKinley, quando una sanguinosa insurrezione contro il dominio spagnolo stava destabilizzando l’intero vicinato statunitense. Rifuggendo dai toni forti o dalle minacce pubbliche (anche se erano numerose quelle provenienti dal Congresso), McKinley si mosse in silenzio e dietro le quinte. Avvisò i funzionari spagnoli che dovevano porre fine all’insurrezione ottenendo la vittoria o negoziando un accordo. Quando questi si lamentarono e protestarono, dichiarando che Cuba non era affare nostro, McKinley rimase fermo nella convinzione che il continuo spargimento di sangue fosse insostenibile così vicino alle coste statunitensi. La guerra che ne risultò distrusse l’impero spagnolo e creò quello americano.

Nessuno di questi imperativi regionali per l’America è racchiuso nello status della Groenlandia di protettorato danese, e la tendenza di Trump alla magniloquenza e alle minacce ha probabilmente già compromesso quello che sarebbe stato un obiettivo più modesto e realistico: ottenere l’accesso garantito da parte degli Stati Uniti ai preziosi minerali strategici della Groenlandia. Il metodo McKinley della diplomazia silenziosa sarebbe stato molto più efficace per Trump nel mondo di oggi, come lo fu per McKinley ai suoi tempi. E poi c’è l’invocazione da parte di Trump delle convinzioni protezionistiche di McKinley in concomitanza con la sua richiesta di tariffe doganali elevate per rimpinguare le casse federali e contribuire a invertire il declino del Paese come grande Nazione industriale. È vero, McKinley fu un uomo dai dazi elevati per gran parte della sua carriera. La giornalista Ida Tarbell lo ha definito “un vantaggio (...) di cui pochi dei suoi colleghi hanno goduto: quello di credere con fede infantile che tutto ciò che sosteneva come protezione fosse vero”. Due punti qui sono degni di nota.

In primo luogo, il protezionismo è stato parte integrante della filosofia economica repubblicana durante gli anni di crescita del Partito, nel XIX secolo, come lo era stato per i whig prima di allora e per i federalisti ancora prima. Il protezionismo fa parte del patrimonio politico del Paese. Abraham Lincoln iniziò la sua carriera politica come candidato alla legislatura dello Stato dell’Illinois dichiarando che la sua politica era “breve e dolce, come il ballo di una donna anziana”: era favorevole a una banca nazionale, a miglioramenti delle infrastrutture interne “e a elevate tariffe protettive”. Il secondo punto è che, nel 1901, McKinley aveva arguito che quelle elevate tariffe protettive non erano la ricetta economica giusta per il nuovo secolo, quando la capacità produttiva dell’America sia nel campo agricolo che in quello industriale stava superando la capacità del mercato interno di assorbire tutti quei beni prodotti. Un importante discorso tenuto a Buffalo, nello Stato di New York, nel settembre del 1901, evidenziò la sua inversione di pensiero sulla questione delle tariffe doganali. Facendo eco a un principio fondamentale del libero scambio, McKinley disse che se l’America voleva vendere i propri prodotti all’estero, doveva anche acquistarli dall’estero.

“Il periodo dell’esclusività è passato”, dichiarò il presidente. Poi delineò un nuovo concetto di commercio internazionale basato sul principio di “reciprocità”: trattati di commercio reciproci pensati per ridurre le tariffe doganali e migliorare gli scambi commerciali. “I trattati di reciprocità”, dichiarò McKinley, “sono in armonia con lo spirito dei tempi; le misure di ritorsione non lo sono”. Il giorno dopo gli spararono e nel giro di otto giorni morì. Non è chiaro se la magniloquenza e le minacce di Trump in merito alle tariffe doganali siano finalizzate a sostenere una politica più in linea con il concetto di reciprocità di McKinley che con il suo precedente dogma protezionistico. Tuttavia, se McKinley è la sua guida in materia di politica commerciale, Trump dovrebbe tenere conto delle realtà economiche che indussero l’ohioano a rivedere la sua visione del commercio e ad apportare all’argomento un nuovo livello di complessità più in linea con i tempi che cambiano. Una protezione rigida può ancora essere necessaria, ma dovrebbe essere esclusivamente finalizzata a promuovere un commercio solido non a soffocarlo. Nel mentre, Trump potrebbe prendere in considerazione le virtù del modus operandi di McKinley che fu metodico, misurato, costante, audace quando necessario, ma privo di spacconeria e pomposità, e sempre pronto ad affrontare le sfide con un incisivo processo decisionale. Ciò potrebbe anche essere più importante di che nome dare alla montagna in Alaska.

(*)Tratto da The American Conservative

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Robert W. Merry (*)