mercoledì 22 gennaio 2025
Una riparametrazione delle forze si sta stagliando velocemente in Medio e Vicino Oriente: la nuova Siria, la secolare questione israelo-palestinese, l’aspirante potenza nucleare iraniana, tutte “questioni” collegate da un fil rouge. Una riconfigurazione che tratteggia un nuovo profilo strategico regionale. Una nuova mappa del potere che sta cambiando, tra chi ha perso e chi si è rafforzato, in un insieme di continuità e di incognite. In questo quadro dobbiamo ricordare quanto i vecchi poteri dell’area siano in croniche condizioni di degrado. Il Paese arabo con il sedicente esercito più potente dell’Africa e del Medio Oriente, l’Egitto, con i suoi quasi 113 milioni di abitanti, è praticamente sotto “terapia intensiva” tramite la perpetua “somministrazione” dei finanziamenti del Fondo monetario internazionale. L’Iraq, almeno 46 milioni di abitanti, dopo Saddam Hussein è piombato in una crisi socio-politica ed in conflitti interni decennali, dai quali si sta riprendendo molto lentamente. La Siria, 23 milioni di persone, dal 2011 in guerra civile, causa Isis e collaterali, dovrà essere riorganizzata e ricostruita.
Un nuovo scenario dove la forza degli idrocarburi rappresentata dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo, sta fagocitando i vecchi poteri del Cairo, di Baghdad e Damasco, quindi un dominio del “Golfo” in crescita sul vecchio potere arabo. Ma non solo la “Penisola araba” sta operando per avere maggiore influenza in un contesto fragile ed in divenire, ma anche la Turchia e Israele sono entrate nel 2025 con posizioni di forza crescenti. Così Ankara sta prendendo in Siria le posizioni lasciate, per ora, dalla Russia e dall’Iran. Quest’ultima reduce dalle clamorose sconfitte incassate dai suoi alleati sul “campo”, Hezbollah ed Hamas, “devastati” dallo Stato ebraico e dagli sciiti Houthi yemeniti, ancora non totalmente annichiliti, ma il loro tramonto non è lontano, visti anche i programmi trumpiani. Tuttavia l’osservazione che non si può evitare di fare è che nel mondo arabo le Nazioni che attualmente attraggono le attenzioni a livello geostrategico sono tre Paesi non arabi: Israele, Turchia ed Iran.
Il pio Recep Tayyip Erdoğan decisamente nostalgico dagli antichi fasti dell’Impero ottomano, rimastogli impresso nel sistema nervoso, si propone di sponsorizzare la rinascita della Siria. La Turchia di Erdoğan rappresenta un Paese con aspetti diplomatici molto articolati. È membro della Nato ma con rapporti importanti sia con la Russia che con la Cina. Inoltre, non ha mai negato di avere legami o quantomeno contatti con Hamas, sunniti come la maggioranza dei turchi. Ma nel perseguire una politica estera ad ampio respiro, e senza condizionamenti legati a quelle che il presidente turco considera blande alleanze, riferite soprattutto alle organizzazioni occidentali, e anche se con alternate posizioni, ha anche contatti con Israele. Va rammentato quanto il Presidente turco ha osservato in varie occasioni, affermando che la Turchia è più grande della Turchia. Quindi ogni situazione che si crea nel Medio Oriente, soprattutto nella confinante Siria, è di interesse turco e di conseguenza i confini della Turchia, secondo Erdogan, non sono quelli tracciati sulla carta geografica.
La Turchia, decisamente in una posizione di forza, palesa la volontà di chiarire definitivamente anche la questione dei curdi presenti in Siria. La regione autonoma battezzata dai curdi “Rojava”, è sotto pressione a causa delle milizie dell’Ans, Esercito nazionale siriano, alleanza di piccoli gruppi sostenuti e armati da Ankara, la cui vocazione è la lotta contro le forze curde presenti al confine siro-turco, queste sono rappresentate dalle Sdf, Forze democratiche siriane, un’alleanza tra milizie curde, gruppi armati arabi, turcomanni e assiri o siriaci, localizzati nel nord-est della Siria, coese con l’Unità di protezione popolare, Ypg, milizia curda formata dal Partito dell’unione democratica e sostenuta dalle potenze occidentali nel quadro della lotta contro l’Isis.
L’obiettivo dell’Ans, quindi della Turchia, è quello di rimuovere i curdi definitivamente dalla carta geografica siriana di cui occupano, a diritto, un quarto del territorio. Infatti a seguito della cacciata di Bashar al-Assad, avendo le milizie dell’Ans occupato Aleppo, dopo avere supportato l'offensiva degli islamisti dell’Htc, Hayat Tahrir Al-Sham, si sono riorientate verso nord per attaccare le milizie curde. Proprio in questa area, parte occidentale della regione autonoma Rojava, da inizio gennaio sono scoppiati intensi combattimenti tra le milizie filo-turche e i curdi. Ma il mancato Kurdistan (fatale errore di Sykes-Picot, 1916) comprenderebbe anche parte dell’Iraq del Nord, parte del sud della Turchia e l’Iran nord occidentale.
Ma visto lo scenario, la regione Rojava riuscirà a sopravvivere al colpo di Stato islamista in Siria? L’alleanza curda che gestisce la regione da 12 anni potrebbe tentare di dialogare con i nuovi padroni del Paese, gli islamisti di Hayat Tahrir Al-Sham, ma non è certo che possano avere riscontri. Infatti il nuovo governo di Damasco dovrebbe accettare la stabilizzazione di un’entità autonoma su un territorio che invece intende amministrare nella sua totalità, anche alla luce della loro nuova antifona nazionalista che promette di smantellare qualsiasi gruppo armato del Paese. Intanto Israele sta riposizionandosi robustamente in un assetto geocentrico, procedendo nella riorganizzazione della sua sicurezza soprattutto nel territorio palestinese, e nella Striscia di Gaza in particolare. Inoltre lo Stato ebraico prevede il raddoppio della popolazione israeliana sull’altopiano del Golan.
Anche se grandi cambiamenti sono all’orizzonte in Medio Oriente, e che le relazioni intrattenute tra gli attori principali, ciascuno con la propria storia, potrebbero plasmare il nuovo equilibrio della regione, l’idea che si stia costruendo un castello di sabbia, per ora, non mi abbandona. Nonostante il nuovo percorso promesso da Donald Trump.
di Fabio Marco Fabbri