giovedì 5 dicembre 2024
Sulla situazione in Medio Oriente, soprattutto dopo le primavere arabe, pesa molto l’imperialismo iraniano, contro cui si sono alleati i Paesi sunniti. E dopo la battuta d’arresto sul campo, per gli ayatollah non promette bene neanche la presidenza Trump.
Quanto accaduto in Siria con la presa di Aleppo da parte dei ribelli jihadisti sostenuti dalla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan può sembrare sorprendente, ma in realtà era in fermento già da tempo e s’inserisce nel quadro degli eventi messi in moto dall’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas. Dopo il cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele in Libano, e con Gaza ormai sotto il pieno controllo di Tel Aviv, la tensione si è spostata nuovamente sulla Siria, legata a doppio filo a Iran e Russia. Hezbollah, pilastro del sostegno iraniano al regime di Bashar al-Assad, è oggi logorato dai duri colpi subiti nella guerra contro Israele. La Russia, decisiva in passato con la sua potenza aerea nel salvare Assad dall’assalto dei ribelli jihadisti, ha probabilmente abbassato la guardia, spostando l’attenzione verso la guerra in Ucraina e le ambizioni strategiche in Africa. Questi fattori hanno lasciato il regime di Assad in una posizione di vulnerabilità che ha incoraggiato i ribelli (e Ankara) a dare l’assalto ad Aleppo. Aleppo è stata teatro di una delle battaglie più cruente della guerra civile siriana. Con il sostegno decisivo di Mosca, Assad riuscì a riconquistare l’intera città alla fine del 2016, sottraendola ai ribelli, che tuttavia hanno mantenuto il controllo di Idlib e della regione circostante, continuando a rappresentare una minaccia fino agli eventi più recenti.
La componente religiosa settaria e confessionale qui è ben presente, ma nel quadro più ampio del conflitto siriano è stata significativamente ridimensionata. Basti guardare all’orientamento dei principali paesi arabi sunniti. Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania e più recentemente Arabia Saudita hanno ripristinato le relazioni diplomatiche con Damasco, preoccupati più dalla presenza dei ribelli jihadisti dietro cui, oltre alla Turchia, si annida il solito Qatar, che della permanenza al potere del regime alawita di Assad, inglobato nella “mezzaluna sciita”, dominata dall’Iran. Per la stessa ragione, Egitto e Algeria non hanno mai interrotto i rapporti con Assad. In questo quadro, resta comunque da sciogliere il nodo del ruolo dell’Iran e dei suoi alleati in Medio Oriente, tra cui gli Houthi nello Yemen che tengono sotto scacco il Mar Rosso e le milizie sciite irachene entrate in Siria nei giorni scorsi per dare sostegno ad Assad. Non c’è dubbio infatti che l’imperialismo iraniano abbia generato in larga parte la sequela di eventi che ha condotto la regione alla situazione attuale, soprattutto dalla Primavera araba in poi.
Da questo punto di vista, il lassismo dei democratici negli Stati Uniti, Barack Obama prima e Joe Biden poi, combinato con l’ambiguità degli europei, che non hanno mai rinunciato alle relazioni economiche con Teheran malgrado le sanzioni, ha contribuito ad alimentare le ambizioni del leader Ali Khamenei e dei pasdaran, invece di indurle a un ridimensionamento, con la questione del programma nucleare che resta sempre e pericolosamente sullo sfondo. Il tentativo di conquistare l’egemonia regionale è andato incontro a una pesante battuta di arresto, di cui hanno pagato amaramente le conseguenze innanzitutto i palestinesi della Striscia di Gaza e poi la popolazione libanese, mentre il regime sta subendo un duro colpo anche in Siria. Ciò lo indurrà a un radicale ripensamento delle proprie politiche? L’integralismo ideologico di cui l’Iran e i suoi “proxies” regionali hanno dato prova finora non lascia ben sperare. Tuttavia, nell’immediato futuro dovranno confrontarsi con la nuova Amministrazione Trump, che promette verso Teheran un forte irrigidimento. Pertanto, una svolta pragmatica da parte degli eredi di Khomeini non è da considerarsi impossibile, almeno per i prossimi quattro anni.
(*) Tratto da La Nuova Bussola quotidiana
di Souad Sbai (*)