martedì 5 novembre 2024
Si dice che, se Donald Trump e Kamala Harris fossero due sassi, passerebbero il tempo a lanciarsi granelli di sabbia e litigando come due galli, insultandosi e gettando lo scompiglio su tutta la spiaggia circostante. A un certo punto gli altri sassi congiurerebbero per toglierseli di torno finché, con l’aiuto dei gabbiani, li getterebbero nel mare. Ma siccome i sassi non annegano, i due continuerebbero a baccagliare anche nei fondali, gettando sconforto tra pesci e coralli. Il problema delle elezioni americane (a parte la violenza verbale di Trump, riflessa dai Dem, in forma politicamente corretto), è la mancanza di visione e progettualità politica di entrambi i protagonisti di questo litigio elettorale a microfoni aperti.
Va detto che Trump non ha catastrofato il mondo, nel corso del suo precedente mandato presidenziale, e che la squadra di Joe Biden ha lavorato abbastanza bene in politica estera, ad eccezione dell’Afganistan, ignorato dai movimenti di liberazione cosmici secondo cui le dittature teocratiche, putiniste, bolivariste non abbisognano di proteste e lamentazioni espresse con cortei di piazza, putipù e lancio di pomodori o bombe carta. Invece l’ologramma, se non il corpo, del ministro Alessandro Giuli dev’essere odiato pubblicamente e messo al rogo come Giordano Bruno, per via telematica.
Il fatto è che in quasi tutte le democrazie liberaldemocratiche c’è una pesante crisi della leadership. Siamo tornati alla monarchia assoluta in forma di demomonarchia. Le dittature e i partiti antidemocratici occidentali sono invece per la demagogia assoluta. Insomma, la sola forma di governo che trionfa è l’assolutismo. Nel pluralismo ristretto del bipartitismo trionfante mancano tolleranza e dialettica costruttiva, competenza e autorevolezza. Ciò è evidente anche negli Stati Uniti, faro della libertà dove – come ovunque – anche altri organi del potere, come i media e la magistratura, sono a pezzi, e dove la rigenerazione della cultura politica e sociale è ferma da troppo tempo.
Così, in ogni Nazione i giovani esodano cercando invano una vita nova in altri Paesi. Poi c’è il popolo demagogico. Quello che, se può, prende l’auto o l’aereo per passare un weekend a migliaia o centinaia di chilometri di distanza. Come carcerati in attesa dell’ora d’aria. Sono gli stessi che si strappano i capelli contro il cambiamento climatico, che secondo i demagoghi è causato dal capitalismo, come ormai dicono esplicitamente. Ebbene, a parte il capitalismo metafisico, c’è il capitalismo concreto delle loro auto ed aerei, intasate e dirette verso il nulla ogni fine settimana. E così fanno molti di noi. Tanti di noi, anche quelli che si rendono conto che ormai la ipermobilità continua è un problema che non va limitato all’uso delle auto. Eppure contro gli aerei non c’è quasi nessun provvedimento.
La demagogia di popolo, media e partiti ha imposto una sola policy contro il cambiamento climatico: l’auto elettrica, che celebra il sacrificio al dio dell’anticapitalismo col sangue dei contribuenti. Prima dell’auto dei privati ci sarebbero aerei e iperturismo. Prima di rifare il mercato automobilistico globale (migliaia di miliardi di spesa per tutti gli umani, esclusi gli ultrapoveri) si potrebbero riforestare le città per ridurre il megaconsumo dell’aria condizionata. Perché mai si vuole togliere la mobilità a individui e famiglie? Io d’estate fuggo in montagna, dove l’auto a benzina è ancora indispensabile. Non basta aver spopolato i polmoni verdi del mondo, cioè le campagne e le montagne?
L’incapacità di fare politiche pubbliche è il peccato mortale della politica mondiale. È questa la vera emergenza cui provvedere, per evitare di ritrovarsi con leader inetti o irascibili. Per esempio, a differenza degli Stati Uniti e dei Paesi anglosassoni, in Italia manca una facoltà ad hoc per la preparazione all’attività politica. In Francia c’è l’Ena (oggi Insp), simile alle facoltà yankee di Public policy nate oltre 70 anni fa, dove si studiano metodi scientifici per individuare e attuare soluzioni pratiche per il territorio, l’economia, la società. Eppure persino negli Usa la formazione del personale politico nel 2024 appare regredire al modello italiano, in cui i politici sono per lo più avvocati: Kamala Harris ha studiato alla Università Howard e all’Hastings College of the Law di San Francisco, mentre Donald Trump ha frequentato prima la Fordham University del Bronx a New York, e poi la Wharton School of Finance and Commerce dell’Università della Pennsylvania. Chissà se hanno in seguito seguito i corsi della Scuola di formazione comunista delle Frattocchie di Roma, ma lo dubitiamo.
Persino negli Stati Uniti abbiamo due candidati presidente poco formati per il lavoro politico. Non è un handicap da poco. Pensiamoci anche in Italia: è bene che un politico conosca le diverse discipline della vita quotidiana e lavorativa, e abbia contezza di Aristotele, David Hume, Giacomo Leopardi, Dante, della fisica quantistica, di San Juan de la Cruz e della pittura impressionista. Ma oltre a ciò, serve anche una formazione politico-economica ad hoc, che sia rigorosamente imparziale e pluralista. Possibile che in Italia – come negli stessi Usa “liberisti” – quasi nessuno sappia nulla di liberismo e liberalismo? Senza saperlo, subiamo censure nel mentre che dobbiamo attraversare camere oscure che pure sono importanti. Come potremo quindi ridare chance a un futuro migliore?
di Paolo Della Sala