venerdì 1 novembre 2024
Dopo la morte di Yahya Sinwar, stando alle analisi degli osservatori occidentali, Hamas potrebbe trasformarsi a Gaza in una nebulosa di milizie, senza un reale coordinamento tra di loro. Lo stato dell’arte post-Sinwar, a oggi è il seguente. Il suo più quotato successore, Khaled Mechaal, rappresenta l’ala politica e vive in Qatar e, pertanto, non vi è nessuna certezza che possa controllare i miliziani schierati sul campo, tenendo presente la stigmatizzazione dello stesso Sinwar nei confronti dell’Hamas dei Grand Hotel. Con ogni probabilità, sotto la leadership di Mechaal, la milizia prenderebbe le distanze dalla sua scelta strategica filo-iraniana, abbandonando verosimilmente il suo ruolo di proxy di Teheran.
Un altro leader sopravvissuto è Khalil al-Hayya, uno dei negoziatori di Hamas per la liberazione degli ostaggi, e che ha fama di pragmatico, anche se nel caso dei fondamentalisti sarebbe opportuno non parlare mai di personalità “moderate”. In caso negativo di fumata nera, si assisterebbe all’emergere di capetti locali, ciascuno con il suo piccolo bottino di ostaggi da scambiare con Israele in cambio di vantaggi minori, con richieste distinte e posizioni anche molto diversificate tra di loro. E nessuno di costoro ha interesse, evidentemente, a concludere un accordo che non preveda il ritiro delle truppe israeliane da Gaza. Un vero rompicapo e incubo per Israele, visto che così stando le cose è impossibile arrivare a un accordo globale, anche a seguito dell’impraticabilità assoluta della soluzione “due popoli, due Stati”.
E poiché a dover scegliere il successore (probabilmente ad interim) di Sinwar sarà la Shura di Hamas – che rappresenta un’istituzione tribale delle origini deputata a eleggere i capi tribù e a prendere le decisioni – quel che si sa è che ci sono divisioni tattico-strategiche all’interno dei suoi 65 membri, così suddivisi: 15 a Gaza, 15 in Cisgiordania; 15 per l’esterno; una decina designati dai Fratelli Musulmani (e qui si spiega la totale adesione del fratello turco Recep Tayyip Erdoğan alle ragioni di Hamas), e un’altra decina in rappresentanza dell’ala militare del movimento. Da questa suddivisione appare già chiarissima la non omogeneità interna di Hamas, che potrebbe avere conseguenze negli sviluppi nell’attuale conflitto israelo-palestinese. Se la scelta della Shura dovesse cadere sul fratello di Sinwar, Mohammed, nulla cambierebbe e, anzi, le ragioni della vendetta ispirerebbero al suo nuovo capo un comportamento ancora più radicale, se possibile, nelle trattative per la tregua. E, comunque, Mohammed diverrebbe il primo obiettivo di Benjamin Netanyahu da colpire, prima di poter concludere la sua campagna di Gaza, fin troppo sanguinosa e catastrofica sul piano umanitario.
Resta, a parte tutto, il problema di fondo che preoccupa l’Occidente e Israele: con la scomparsa di Sinwar viene forse meno la strategia degli estremisti islamici di una lunga guerra per esaurire le risorse israeliane, condotta con l’ausilio dell’Hezbollah libanese e con il possibile (e auspicato) coinvolgimento diretto nel conflitto dello stesso Iran? Sul versante opposto, è chiaro a tutti come l’obiettivo estremamente ambizioso di Bibi di eliminare Hamas da Gaza sia di fatto irraggiungibile, malgrado che la forza residua del movimento sia stimata oggi a 10mila uomini, pari a un terzo degli effettivi che poteva vantare prima del 7 Ottobre 2023.
I precedenti storici, che hanno visto uccisioni mirate per mano del Mossad di importanti leader di Hamas, come quella del suo capo storico, sceicco Ahmed Yassin, non sono serviti in passato né a smantellare il gruppo, né a favorire una soluzione moderata del conflitto. Anche per l’amministrazione Usa, malgrado che ne sia uscito più che dimezzato, Hamas possiede ancora un enorme potere attrattivo per quanto riguarda il reclutamento di nuovi miliziani, visto che le distruzioni a Gaza e il rischio concreto di una nuova Nakba (ricorrenza per l’esodo palestinese del 1948) hanno creato altro odio generazionale da parte palestinese nei confronti di Israele.
Certo, se però arabi e occidentali riuscissero a individuare una soluzione di governo alternativa ad Hamas, con personaggi autorevoli e rispettati che vadano a nuove elezioni, allora le pene patite da più di due milioni di gazawi potrebbero giocare a favore di una iniziativa politica di pacificazione con Israele. Difficilmente dopo il 7 Ottobre scorso la causa palestinese potrà rientrare nel silenzio che ha preceduto il pogrom antiebraico, almeno non fintanto che i suoi proxy e l’Iran stesso avranno come statuto e mission la cancellazione di Israele dal sacro suolo (mediorientale) dell’Islam. Se l’odio, come tutto fa presumere, dovesse restare il solo e unico motore della resistenza palestinese, che comunque sia non accetterà né ora né mai la soluzione dei “due Stati”, allora nessuna leadership post-Sinwar potrà raggiungere un compromesso di convivenza con lo Stato di Israele.
Tuttavia, per parte sua, difficilmente Netanyahu potrebbe procrastinare l’occupazione militare a Gaza e in Libano oltre un certo tempo fisiologico: i soldati israeliani e i riservisti, infatti, sono tutte persone con un lavoro e una famiglia, e non possono subire un logoramento dei loro interessi economici e affettivi restando mobilitati per anni sotto le armi, con il rischio costante di venire uccisi da un commando o da un attentato. Per questo, un compromesso ottenuto con la mediazione internazionale arabo-occidentale che garantisse sia il ritorno a casa degli ostaggi, sia la smilitarizzazione di Gaza e del Sud del Libano, potrebbe rappresentare un’ottima soluzione per la fine delle ostilità. Certamente, se dopo di allora nulla si muovesse politicamente in Iran con un regime-change, allora continuerebbe lo stillicidio del riarmo dei proxy di Teheran e con loro dei missili di fabbricazione iraniana, lanciati dalla Striscia e dagli Hezbollah libanesi contro gli insediamenti civili e le città israeliane. Se dovesse spuntarla Donald Trump, le concessioni da fare ai palestinesi saranno meno vincolanti e dolorose per Netanyahu, rispetto a una presidente democratica che non potrà che ribadire le tesi e le posizioni precedenti dell’amministrazione uscente di Joe Biden.
di Ma. Guai.