Medio Oriente e Turchia, tra guerra e pace

venerdì 25 ottobre 2024


Israele prosegue l’offensiva in Libano ma apre alla possibilità di negoziati per una tregua e il rilascio degli ostaggi a Gaza. Dei 251 rapiti il 7 ottobre scorso, 97 sono ancora prigionieri, mentre 34 sono stati dichiarati morti dalle Forze di difesa israeliane. Dopo gli incontri con il segretario di Stato americano Antony Blinken, lo Stato ebraico ha inviato una delegazione in Qatar per negoziare il rilascio dei prigionieri, con Hamas che si dice aperto a discutere di un cessate il fuoco in una Gaza devastata da oltre un anno di conflitto. I precedenti negoziati, mediati da Qatar, Egitto e Stati Uniti, si erano conclusi senza esito in agosto. La situazione si è evoluta dopo la morte del leader di Hamas, Yahya Sinwar, eliminato da Israele il 16 ottobre, mentre Tel Aviv affronta pressioni crescenti per porre fine alla guerra. Dopo una fase di incertezza riguardo alla partecipazione di Hamas ai colloqui, il gruppo ha confermato la sua disponibilità, ponendo come condizioni un cessate il fuoco, il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e uno scambio di prigionieri. Condizioni simili erano già state respinte da Israele in precedenti negoziati.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato il capo del Mossad, David Barnea, in Qatar per discutere le opzioni negoziali con il capo della Cia, Bill Burns, e il primo ministro dell’emirato, Tamim bin Hamad al-Thani. Il leader dell’intelligence israeliana ha già incontrato alti funzionari egiziani nel tentativo di riaprire i colloqui e raggiungere una tregua. Nel frattempo, il capo della diplomazia americana – di ritorno dall’undicesimo viaggio in Medio Oriente – si trova a Londra per incontri con il premier libanese Najib Mikati e altri leader regionali. La discussione con Mikati sarà centrata sulla campagna militare israeliana contro Hezbollah, che ha causato diverse vittime in Libano, soprattutto a Beirut. Blinken ha esortato Israele a evitare una prolungata escalation, sottolineando la necessità di prevenire “danni alla popolazione civile, all’esercito libanese e alle forze di pace delle Nazioni unite”.

ANKARA, DOPO L’ATTENTATO E I RAID IN SIRIA

È stata una “squadra autonoma” a compiere l’attentato di matrice curda di Mercoledì scorso. L’attacco è stato rivendicato dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Anzi da un piccolo gruppo, non attivo con regolarità, ma capace di operare “di tanto in tanto” per inviare “avvertimenti” e “messaggi” al governo turco. In un comunicato, il gruppo armato, in lotta con l’esercito turco da oltre 40 anni, ha sottolineato che l’attentato era pianificato da tempo e non ha alcun legame con le recenti discussioni politiche in Turchia, incluse le voci di una possibile ripresa del processo di pace con Ankara. A seguito dell’attacco, il ministro dell’Interno turco, Ali Yerlikaya, ha annunciato su X l’arresto di 176 sospetti membri del Pkk in operazioni condotte in 31 province, tra cui Istanbul. Gli arrestati sono accusati di aver diffuso propaganda a favore del Pkk e di aver partecipato a manifestazioni illegali, dove sono stati bloccati strade, incendiati pneumatici e lanciate molotov. Durante le operazioni sono state anche sequestrate diverse armi. I fermi sono avvenuti meno di 48 ore dopo l’attentato contro la sede dell’Industria aerospaziale turca, condotto da due assalitori identificati come membri del Pkk.

Nel frattempo, le forze armate turche hanno intensificato gli attacchi aerei e terrestri nel nord e nell’est della Siria, prendendo di mira infrastrutture come stazioni idriche ed elettriche. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), sono stati documentati 45 raid di droni e quattro attacchi con jet da combattimento. L’operazione mirata di Ankara arriva in un momento di delicati equilibri politici. Nei giorni precedenti, il partito turco Mhp aveva sollecitato Abdullah Ocalan, leader incarcerato del Pkk, a dichiarare la fine del terrorismo e lo scioglimento del gruppo, un’iniziativa considerata “storica” dal presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan. Il giorno dell’attentato, Ocalan ha ricevuto la sua prima visita in carcere dopo oltre quattro anni, durante la quale ha dichiarato di poter portare il conflitto dal campo della violenza a quello politico, a patto che ci siano le “giuste condizioni”.

Il comunicato del Pkk ha definito le parole di Ocalan “un segnale positivo” e ha dichiarato che il gruppo valuterà la situazione in base ai futuri sviluppi.


di Zaccaria Trevi