La nuova industria della tortura in Pakistan, Arabia Saudita, Cina e India

lunedì 30 settembre 2024


La “repressione transnazionale” è una pratica poco conosciuta che si riferisce alla pressione esercitata da un Governo, attraverso mezzi illegali o violenti, per mettere a tacere i cittadini espatriati di altre nazioni, sempre più spesso quelli che vivono in Occidente. Un recente report, basato sulla registrazione audio di un agente dello Stato pakistano che cercava di reprimere a livello transnazionale un espatriato pakistano che viveva in Australia, e scritto a quattro mani per Drop Site News da Ryan Grim e Murtaza Hussain, denuncia tale pratica affermando che si parla di “repressione transnazionale” quando: “Un Governo (o individui che operano su richiesta di un Governo per colpirne i rivali) reprime l’attività politica di persone che vivono al di fuori dei suoi confini. L’azione va oltre un tipico abuso dei diritti umani perché non solo viola i diritti del suo bersaglio immediato, ma sfida anche la sovranità della nazione che la vittima chiama patria”. In breve, la repressione transnazionale esiste quando un Governo, come il Partito comunista cinese, ti rintraccia, ti intimidisce e ti perseguita da un Paese all’altro. Il rapporto continua: “Quando l’Arabia Saudita inviò una squadra di killer per assassinare il giornalista americano e residente Jamaal Khashoggi a Istanbul, l’omicidio venne visto non solo come un atto di aggressione contro la libertà di stampa, ma come uno schiaffo in faccia sia alla Turchia che agli Stati Uniti.

“Gli australiani si allarmerebbero se venissero a sapere che i Governi stranieri usano misure coercitive contro i cittadini australiani e le loro famiglie”, ha affermato Andrew Wilkie, membro della Camera dei rappresentanti australiana, rispondendo in merito al caso di Shabbir. La registrazione audio (che è stata tradotta in inglese e può essere ascoltata qui) è quella di una telefonata fatta a Salman Shabbir, un cittadino australiano di origine pakistana, che gestisce un account su X, Citizen Action, incentrato sulla promozione della riforma democratica in Pakistan. Tra le altre cose, Shabbir ha contribuito a raccogliere e far circolare lettere e petizioni riguardanti la terribile situazione dei diritti umani del Pakistan e le sue elezioni truccate, e ha chiesto di avviare indagini esterne. Prima della chiamata fatta a Shabbir, suo fratello era stato rapito da cinque-sei uomini vestiti di nero. Shabbir postò la notizia del rapimento sul suo account Citizen Action. Il giorno seguente, ricevette una chiamata dal numero telefonico di suo fratello. Dopo aver sentito per qualche istante la voce del fratello, un altro uomo gli strappò dalle mani il telefono e chiese a Shabbir: “Dov’è tuo fratello?”. “Ora ascoltami”, proseguì l’uomo, “e non cercare di fare scherzi o di fare il furbo. Se lo fai, creerai problemi a tuo fratello”. L’uomo, che solo verso la fine della chiamata si identificò semplicemente come “Hamza”, continuò a mettere in guardia Shabbir dall’interferire con la politica pakistana, soprattutto considerando che aveva lasciato il Pakistan per andare a vivere in Australia: “Dovresti farti i fatti tuoi. Non dovresti intrometterti negli affari del Pakistan”. A Shabbir venne poi chiesto chi gestisse il portale Citizen Action. Quando rispose che era lui a farlo, “Hamza” gli ordinò di dargli il suo nome utente e la sua password. All’obiezione di Shabbir, “Hamza” disse: “Se non ce le invii, ce la prenderemo con tuo fratello e sarai tu il responsabile”.

La comunicazione poi si interruppe. Qualche ora dopo, il telefono squillò di nuovo e Shabbir sentì la voce di suo fratello: “Salman, fratello mio, mi hanno portato qui e sono in un mare di guai. Per favore, ti chiedo di fare come dicono”. Quando Shabbir chiese cosa volessero, suo fratello rispose: “Parli contro il Governo del Pakistan, non farlo, altrimenti avrò problemi”. Dopo avergli chiesto se stesse bene e aver appreso che era stato torturato, Shabbir disse: “Ok, non parlerò contro il Governo. D’accordo?”. A questo punto, Shabbir rivolgendosi al rapitore gli chiese: “Ha un’altra richiesta, signore?”. “Hamza” proseguì dicendo di non volere più il suo username e la password, ma che Shabbir avrebbe dovuto cancellare immediatamente il suo post più recente in cui diceva che suo fratello era stato rapito, e scrivere invece che era stato tutto un errore. Quando Shabbir rispose che lo avrebbe fatto solo dopo essersi accertato che suo fratello era stato rilasciato ed era tornato a casa sano e salvo, il fratello lo implorò di obbedire senza condizioni: “Salman, mi tortureranno!”.

Il telefono gli venne strappato dalle mani e “Hamza” prese la parola dicendo: “Adesso ho rapito tuo fratello, la prossima volta porterò con me tutta la tua famiglia”. Poi si udirono rumori di percosse. “Hai sentito?”. “Sì”, rispose Shabbir. Le percosse e le urla continuano finché Shabbir non accetta di cancellare il tweet e di smettere di criticare il Pakistan. Suo fratello è stato rilasciato poco dopo. Shabbir ha appreso in seguito che suo fratello era stato portato in una prigione vicina, tenuto in una cella tradizionale, il che ha confermato che i rapitori e i torturatori di suo fratello erano agenti dello Stato, molto probabilmente appartenenti alla famigerata Isi (acronimo di Inter-Services Intelligence), la principale agenzia di intelligence pakistana. Parlando di questo episodio con Drop Site News, Shabbir ha dichiarato: “Mi hanno detto di stare zitto così che ci potesse essere stabilità in Pakistan, ma sono le loro azioni a causare instabilità. Ho detto loro che quello che stavano facendo era illegale, controproducente, ma mi hanno deriso quando ho menzionato la legge e mi hanno costretto ad ascoltarli mentre torturavano mio fratello al telefono”. Per quanto inquietanti possano essere in Occidente tali dispacci, risultano anche essere in modo allarmante “comuni”.

Il rapporto elenca molti altri esempi di espatriati pakistani minacciati, o di loro familiari minacciati e aggrediti, se l’espatriato non smette di gettare una luce negativa sul Pakistan: “I cittadini americani, persino quelli famosi in Pakistan, non sono stati risparmiati da questa rete a strascico. Salman Ahmad, un medico pakistano naturalizzato statunitense e noto musicista della rock band pakistana Junoon, ha affermato che la sua famiglia ha subito violenze, e che l’anno scorso suo cognato è stato rapito e torturato. Ahmad è un sostenitore dell’ex primo ministro Khan detenuto in carcere e la sua famiglia è stata presa di mira a causa del suo attivismo. Come Shabbir, anche lui ha ricevuto richieste di consegnare le sue password di Internet e altre informazioni personali”. Ahmad ha detto durante un’intervista: “La mia famiglia e io ci sentiamo come animali braccati. La tortura psicologica è aggravata dalle minacce fisiche alle nostre vite e alle nostre attività. Stiamo affrontando l’Isi perché siamo morti comunque”. Un altro episodio riguarda Wajahat Saeed Khan, un giornalista pakistano di lungo corso residente negli Stati Uniti, e la sua compagna. Una sera, mentre i due stavano preparando la cena nel loro appartamento di New York, ricevono una telefonata da un numero anonimo.

Nel rispondere, la compagna di Khan sente la voce di un uomo sconosciuto che inizia subito a snocciolare i nomi e gli indirizzi dei suoi parenti in Pakistan, dove era nata. Quando la donna chiede all’interlocutore di identificarsi, lui risponde: “Sappiamo chi sei, e tu sai chi siamo noi. Forse dovresti dire al tuo gentiluomo (Khan) di rilassarsi, e di smetterla di fare il suo lavoro con così tanta rabbia”. Secondo il report, tali pratiche non si limitano a percosse e minacce: “Negli ultimi anni, diversi dissidenti pakistani sono morti all’estero in circostanze poco chiare. Tra loro c’era Sajid Hussain, un giornalista pakistano a cui era stato concesso asilo in Svezia e trovato morto nel 2020, così come Karima Baloch, una dissidente attivista per i diritti umani morta in Canada lo stesso anno. Nel 2022, un uomo britannico è stato dichiarato colpevole di aver partecipato a un complotto di un omicidio su commissione che aveva come obiettivo Ahmad Waqass Goraya, un blogger pakistano in esilio nei Paesi Bassi e fervente critico del Governo. E lo scorso anno, Arshad Sharif, un famoso giornalista pakistano, è stato ucciso in Kenya dopo essere stato probabilmente torturato, ha concluso un tribunale keniota”. Sebbene i suddetti report dal Pakistan rilevino gli orrori legati alla repressione transnazionale, le notizie non si limitano a questo Paese. Molti altri casi di alto profilo hanno avuto luogo per mano dell’Arabia Saudita, che ha assassinato il giornalista dissidente Jamal Khashoggi in Turchia, nel 2018, e dell’India, che ha trucidato l’anno scorso Hardeep Singh Nijjar, un dissidente politico e separatista sikh residente in Canada.

Durante un’audizione davanti al Congresso degli Stati Uniti sulla repressione transnazionale tenutasi all’inizio di quest’anno in risposta all’assassinio di Nijjar, John Sifton di Human Rights Watch ha sottolineato l’effetto dissuasivo che tali Governi stranieri hanno sulle critiche legittime e, di conseguenza, sulle riforme: “La repressione transnazionale porta all’autocensura. Anche se alcuni reporter e difensori dei diritti umani continuano il loro lavoro, altri non possono permetterselo. Di conseguenza, le indagini e le segnalazioni sulla violazione dei diritti umani da parte di un Governo non vengono eseguite”. Il rapporto del Drop Site riporta: “Nonostante le obiezioni di alcuni membri del Congresso in merito alla crescente repressione e ai brogli elettorali di questo febbraio, gli Stati Uniti hanno continuato ad appoggiare il Governo pakistano sostenuto dai militari”. A quanto pare l’accordo include un pacchetto pianificato di aiuti da 101 milioni di dollari e un prestito del Fondo monetario internazionale al Pakistan per la fornitura di armi all’Ucraina.

Drop Site continua: “Un portavoce del Dipartimento di Stato ha affermato che non potevano commentare pubblicamente i casi individuali che coinvolgevano privati cittadini ​​o residenti, ma ha aggiunto, che il Dipartimento prende molto sul serio le accuse di abuso o maltrattamento di cittadini statunitensi, residenti permanenti e visitatori stranieri da parte di entità estere. Ci coordiniamo strettamente con altre autorità federali, statali e locali per coinvolgere le comunità locali nelle loro preoccupazioni e incoraggiamo sempre le persone con problemi in materia di sicurezza a sollevare tali timori con le forze dell’ordine”. Sarà fattibile?

(*) Tratto dal Gatestone Institute

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Raymond Ibrahim (*)