lunedì 23 settembre 2024
La Cina sta collassando. Non è una metafora politica, ma ciò che letteralmente sta avvenendo. Dopo decenni di sfruttamento massivo delle risorse idriche sotterranee e costruzioni intensive per dare spazio a una delle popolazioni più in crescita del globo, i cinesi stanno iniziando a vedere i primi effetti di un problema noto come subsidenza.
Di cosa si tratta? Presto detto. La subsidenza è il fenomeno geologico che comporta l’abbassamento del suolo. Secondo molti studiosi, quasi metà delle principali città della Cina sta sprofondando. La prospettiva, nel corso dei prossimi anni, è quella di alluvioni ed esondazioni sempre più frequenti, che rischiano di lasciare decine di migliaia, se non milioni, di cinesi senza un tetto. Quella che però viene male presentata dai media nostrani è la causa ultima di questo fenomeno: spesso si collega la subsidenza all’innalzamento del livello dei mari dovuto ai cambiamenti climatici, come viene ad esempio riportato qui. Sebbene i due fenomeni siano concomitanti, è giusto tuttavia distinguerli nell’analisi. L’innalzamento dei mari è un fenomeno molto lento nel tempo, e comunque oggetto di numerosi dibattiti e incertezze da parte della comunità scientifica: ancora non c’è unanimità, per esempio, circa l’effettiva natura antropica della causa. La subsidenza, invece, è molto più rapida e sotto gli occhi di tutti, e la causa è chiaramente umana.
Questa correlazione tra i due fenomeni a livello mediatico non è frutto di disattenzione o superficialità, si badi bene. In questo modo si vogliono giustificare ed estendere le politiche intraprese – in Occidente, ma non solo – per contrastare l’ipotetico cambiamento climatico di origine antropica anche per risolvere il problema della subsidenza, in Cina come in altre parti del mondo. Così facendo, però, si mette sotto il tappeto il vero problema che questo fenomeno sta facendo emergere: lo Stato, con le sue regolamentazioni e la sua stessa struttura, lungi dal risolvere i problemi dell’ambiente, li acuisce.
Contrariamente a quanto sostiene la vulgata imperante, la storia e i dati mostrano come la libertà economica e le privatizzazioni portino a soluzioni più rapide ed efficaci rispetto alla burocrazia statale. Un’analisi approfondita su questo tema è stata svolta da Novello Papafava nel suo magnifico libro Proprietari di sé e della natura (edizioni Liberilibri). Papafava dimostra chiaramente che, quando la gestione delle risorse è affidata ai privati, si crea un forte incentivo alla preservazione e all’uso razionale delle stesse, in quanto il proprietario ha un interesse diretto nella loro salvaguardia. Invece, il controllo pubblico tende a generare inefficienze, sprechi e, come nel caso cinese, gravi danni ambientali.
In Cina, così come in molte altri Paesi, una vastissima parte delle terre e delle risorse idriche è di proprietà pubblica. Il che, nella pratica, significa che non appartiene a nessuno. Quando qualcosa non appartiene a nessuno ma è utilizzato da tutti, è inevitabile che si deteriori. Questo è un principio economico noto come la “tragedia dei beni comuni”, che in Cina si manifesta in modo evidente con il problema della subsidenza. L’estrazione incontrollata di risorse idriche sotterranee, senza una reale responsabilità individuale o aziendale, ha portato alla rovina di intere aree urbane.
Il problema della subsidenza non è solo geologico, ma anzitutto economico e politico, e le radici vanno ricercate proprio in questa mancanza di rispetto e riconoscimento della proprietà privata. Se le terre e le risorse idriche fossero in mano a privati, questi avrebbero tutto l’interesse a gestirle in modo sostenibile, per garantire la conservazione a lungo termine del loro valore. Invece, l’assenza di proprietà incentiva il consumo sfrenato e irresponsabile. Si tratta di un principio evidente, sotto gli occhi di tutti, eppure così tanto negato. Ma si sa, oggi viviamo in un momento storico in cui bisogna combattere per dimostrare che le foglie sono verdi d’estate, come diceva G. K. Chesterton.
Ciò che dovremmo augurarci di vedere in Occidente è una maggiore consapevolezza tra la popolazione riguardo a questi temi. Non che gli Stati debbano necessariamente farsi promotori di queste riforme – generalmente, come ben sappiamo, gli Stati fanno meglio quando agiscono meno – ma le organizzazioni culturali e i movimenti libertari dovrebbero promuovere la privatizzazione come soluzione a problemi quali la subsidenza. Questa è una sfida che potrebbe toccare anche l’Occidente, se le nostre istituzioni continueranno a privilegiare la proprietà pubblica rispetto a quella privata.
Già ci pare di sentire le obiezioni dei verdi: “privatizzare l’acqua e le risorse naturali porterebbe solo a una gestione predatoria delle stesse”. Davvero? L’esperienza e la storia ci insegnano che è proprio la proprietà privata a garantire una gestione sostenibile delle risorse. Un esempio classico è quello dei terreni agricoli: un contadino che possiede la terra avrà tutto l’interesse a mantenerla fertile e produttiva, mentre una gestione statale, che non risponde a incentivi individuali, rischia di portare a risultati disastrosi, come mostrano decenni di inefficienza dei regimi collettivisti.
Infine, bisogna sottolineare che la regolamentazione statale non risolve affatto i problemi ecologici (e non solo) per un motivo molto semplice: il potere pubblico è più soggetto a corruzione e favoritismi rispetto ai privati, e la Cina ne è un esempio sublime. Pur essendo formalmente impegnata a preservare l’ambiente, la Cina non riesce a controllare il consumo delle sue risorse, proprio a causa della sua struttura politica e dei meccanismi economici che premiano inefficienza e corruzione. La domanda che dobbiamo porci è sempre la stessa sin dai tempi di Platone: chi sorveglia il custode?
La risposta non è più regolamentazione, ma più libertà. Solo in un contesto di reale proprietà privata e responsabilità individuale sarà possibile gestire le risorse in modo efficiente e sostenibile. Questo è il vero segreto per risolvere non solo i problemi della Cina, ma anche quelli che potrebbero affliggere l’Occidente, se non cambieremo rotta.
di Gaetano Masciullo