Occorre vedere l’Ucraina senza il “prisma” della propaganda di Mosca

venerdì 6 settembre 2024


“Ci sono solo un numero limitato di articoli sull’Ucraina che possiamo pubblicare ogni mese”, mi dice un amico che collabora con un’importante testata giornalistica. Sembra un po’ a disagio, quasi dispiaciuto. Vuole farmi capire che se dipendesse da lui, scriverebbe di Ucraina ogni giorno, ma non è così che funziona l’industria dell’editoria. Dall’inizio dell’invasione russa su vasta scala, ho avuto modo di dare un’occhiata a come funzionano diversi settori: editoria, giornalismo e il mondo più ampio della cultura, comprese gallerie e musei, mentre anche prima della guerra di aggressione russa, sapevo già come funzionava il mondo accademico (o meglio, non funzionava). L’imperialismo culturale, purtroppo, sopravvive, anche se i suoi portatori spesso proclamano slogan anti-coloniali. Redattori e accademici hanno per anni dato volentieri una piattaforma ad “autorevoli” esponenti della cosiddetta “cultura russa”. Al contrario, ancora oggi, non è raro sentirsi rispondere: “Abbiamo già parlato di Ucraina” quando si lancia un’idea o un evento pubblico incentrato sul Paese.

Quando navigo su Internet, pagine pubblicitarie e banner invasivi mi suggeriscono di acquistare i biglietti per assistere all’Eugene Onegin, opera tratta dal romanzo in versi di Aleksandr Puškin, o pubblicizzano l’ennesima messa in scena teatrale dello Zio Vanja di Anton Čechov. Quando accade, mi chiedo che fine abbia fatto la tanto paventata “cancellazione” della cultura russa. Per non parlare della sezione Russia che nella maggior parte delle librerie che visito si arricchisce ogni giorno di nuovi titoli, dall’ennesima traduzione di Fëdor Dostoevskij ai resoconti di personaggi dell’opposizione uccisi o imprigionati dal Cremlino. L’attenzione che i media internazionali hanno riservato al rilascio dei prigionieri politici russi nell’agosto 2024 è stato un altro esempio di come più le cose cambiano, più rimangono le stesse. Mentre a questi prigionieri rilasciati è stata fornita una piattaforma mediatica globale che, ahimè, hanno mal utilizzato per chiedere la fine delle sanzioni “ingiuste” contro i “russi comuni”, non è stata fatta alcuna menzione delle migliaia di civili ucraini che continuano a languire nelle prigioni russe.

L’attuale enfasi internazionale su tutto ciò che è russo va di pari passo con una riluttanza a trasformare il crescente interesse per l’Ucraina in significativi cambiamenti strutturali nel modo in cui il Paese viene percepito, raccontato e compreso. Ogni volta che leggo un pezzo sull’Ucraina scritto da qualcuno che non è molto esperto di storia e politica del Paese, il mio cuore si stringe. È probabile che riciclerà cliché storici, ripetendo acriticamente la propaganda del Cremlino sugli ucraini russofoni o generalizzando sulle differenze regionali. E per aggiungere la beffa al danno, questi “esperti” spesso nei loro contributi scrivono male i cognomi delle vittime o i nomi di una località, usando traslitterazioni russe obsolete. Una rapida ricerca su Google o un messaggio a un conoscente ucraino potrebbero prevenire questi errori e salvare l’autore dal fare una brutta figura. Eppure, favorire questo tipo di compiacenza coloniale sembra non preoccupare né gli autori né gli editori. Mi chiedo spesso cosa succederebbe se scrivessi un pezzo sulla politica italiana o statunitense e indicassi in modo errato i nomi di personaggi storici, autorità governative o di città.

Quanto sarebbe probabile che qualcuno decida di pubblicarlo? Eppure gli stessi standard non si applicano quando si tratta di scrivere di Paesi come l’Ucraina, a cui non è stato concesso lo status di priorità a livello globale, almeno fino all’invasione su larga scala da parte della Russia nel 2022. Potrei scrivere male quanto voglio quei nomi e nessuno se ne accorgerebbe. A parte le persone originarie di quei Paesi, naturalmente. Per me è una questione di rispetto. Se un ucraino esasperato dovesse scrivere ad una testata giornalistica per segnalare simili imprecisioni, posso già immaginare come i redattori stizziti storcerebbero il naso, pensando: “Cosa vuole ora questo? Abbiamo parlato dell’Ucraina. Perché non sono mai soddisfatti?”. È importante riconoscere che alcuni organi di stampa occidentali hanno notevolmente migliorato la loro copertura dell’Ucraina negli ultimi due anni e mezzo. In genere lo hanno fatto dedicando tempo e risorse ad avere esperti che hanno scritto dall’Ucraina per molti anni o che si sono impegnati ad approfondire le loro conoscenze abbastanza da produrre analisi di alta qualità.

Tuttavia, alcuni di questi organi di stampa sembrano inclini a dare ancora voce ad individui assolutamente non qualificati per analizzare la regione, o che peggio, fanno da grancassa alla propaganda del Cremlino. Da febbraio 2022, più di 100 personalità culturali ucraine sono state uccise nella guerra. Secondo il Ministero della Cultura ucraino, fino a maggio 2024, oltre duemila istituzioni culturali erano state danneggiate o distrutte. Tra queste, 711 biblioteche, 116 musei e gallerie e 37 teatri, cinema e sale concerti. A maggio 2024, la Russia ha bombardato Factor-Druk, la più grande tipografia del Paese. Quando si è svolto quest’anno il Kyiv Book Arsenal, il più grande festival letterario ucraino, ogni panel è iniziato con un minuto di silenzio per onorare la memoria di coloro che sono stati uccisi in guerra. Questa immane tragedia si aggiunge alle distruzioni di infrastrutture civili e alle crescenti perdite militari. Molti degli uomini e donne in divisa uccisi dall’esercito di occupazione russo sono in effetti comuni cittadini ucraini che conducevano, prima del conflitto, un’esistenza fatta di gesti semplici nella propria quotidianità. Persone che hanno dovuto imbracciare le armi per difendere il loro Paese dall’aggressore russo. Ma allora cosa chiedono questi ucraini che alcuni ancora bollano troppo facilmente come “brontoloni”?

Non molto, in fondo. Chiedono che gli editori si prendano il tempo per comprendere l’Ucraina in tutta la sua complessità e che si preoccupino di offrire agli ucraini la dignità di base di avere i loro nomi scritti correttamente. Mi piace fantasticare su un momento in cui i redattori dei principali periodici occidentali sceglieranno di recensire libri sull’Ucraina non solo perché il Paese è in guerra e si sentono obbligati a parlarne di tanto in tanto, ma perché questi libri offrono spunti vitali sulla democrazia, la lotta per la libertà o l’importanza di mantenere l’unità e il senso dell’umorismo anche in tempi bui come quelli attuali. Spero in un giorno in cui le gallerie ospiteranno mostre di arte ucraina, non solo perché è stata salvata da una zona di guerra, ma perché gli artisti coinvolti forniscono nuove prospettive sul mondo. Ciò sarà possibile quando istituzioni culturali, case editrici, università e giornali comprenderanno che, in quei luoghi, c’è tutto un mondo culturale che è cosa ben diversa dalla tanto osannata “cultura russa”.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza


di Renato Caputo (*)