martedì 27 agosto 2024
Una volta preso atto del ticket presidenziale repubblicano per l’imminente sfida di novembre, nonché della nomination (ereditaria, seppur non dinastica, in perfetta contraddizione con il metodo democratico) di Kamala Harris per i democratici, sarà bene soffermarsi sul profilo politico del numero 2 di Donald Trump, J. D. Vance, in modo da illustrarlo agli Hillibilly (“bifolchi”, come vengono indicati coloro che non votano a sinistra) di casa nostra. Ora, almeno in apparenza, Vance appare come un prototipo trumpiano: un american firster pieno di entusiasmo, protezionista e favorevole alle barriere tariffarie e alla chiusura dei confini, per contenere l’immigrazione irregolare. Di sicuro, Vance è un isolazionista per istinto, pronto a imporre dazi e tariffe in Europa e dintorni e ha totale disistima dell’ordine internazionale basato sul diritto, introdotto in America dalla cultura europea. Inoltre, il vice Trump ha seri dubbi sul fatto che sia l’uomo il responsabile del cambiamento climatico e, come tutti i “natcon”, ammira Viktor Orbán, quel primo ministro ungherese che tanto fa infuriare i suoi pari grado europei. Di certo, qualche gaffe di recente il candidato vice l’ha fatta, come quando ha dichiarato che questa Gran Bretagna laburista assomiglia come una goccia d’acqua a uno stato islamico nuclearizzato! Vance non ama il grande business, perché non tiene in nessun conto quei “little men” che i Natcon intendono difendere. È contro il taglio delle tasse per i ricchi e favorevole al tipo di contrattazione collettiva di stile europeo. In merito, si cita un aneddoto che lo vede associarsi a un picchetto di lavoratori in sciopero in nome dell’amor di Dio, da buon cattolico convertito in età matura (era il 2019).
Come molti dell’élite parigina gaullista, il Maga millennial (l’aggettivo riguarda le persone nate nel periodo tra il 1980 e il 2000) Vance è ossessionato dal declino del tasso delle nascite, presentandosi come il più risoluto oppositore dell’ideologia woke e del wokism. Contrariamente alla scelta attuale di accettazione del ticket presidenziale, fino a qualche tempo fa lo stesso Vance era convinto che Donald Trump fosse un pericolo per la democrazia, come lui stesso scriveva nel 2016 sulla rivista Atlantic, in un articolo dal titolo L’oppio delle masse, in cui sosteneva che, pur apprezzando Trump, lo considerava nondimeno inadatto a gestire la grave, crescente crisi culturale e sociale dell’America. Su non pochi aspetti di politica economica il pensiero di Vance diverge da quello di Trump, essendo favorevole ad esempio a elevare a 20 dollari il salario minimo orario (il che andrebbe ben oltre la rivendicazione del “rosso” Bernie Sanders che lo voleva a 17 dollari). Vance sostiene le banche e rivendica il diritto dell’Esecutivo di indirizzare la politica industriale, facendo ricorso allo strumento del tax credit per favorire le imprese e non si dice filosoficamente contrario alla tassazione sulle persone fisiche, al fine di favorire le famiglie a basso reddito. L’assunto appare perfettamente in linea con la rivoluzione del trumpismo, che intende mutare natura al Gop (Great Old Party, o Partito repubblicano americano), facendone un partito populista con sane radici conservatrici.
Ma se Trump difende tout-court i lavoratori, Vance invece è scettico sulle attuali leggi che regolano il mercato del lavoro e, a sua volta, il candidato presidente teme che le idee del suo vice possano creare un serio pregiudizio per la riedizione di quella prosperità economica che ha caratterizzato il suo primo mandato. Invece, esiste una perfetta identità di vedute tra i due per quanto riguarda lo Spoils system generalizzato, da estendere a tutti i livelli decisionali degli apparati pubblici, sostituendo gli attuali dirigenti amministrativi con persone di stretta fiducia dell’ufficio presidenziale. Vance ritiene, inoltre, che l’America dovrebbe rimanere nella Nato, istituzione molto poco amata dal suo idolo Charles de Gaulle, e che l’annessione dell’Ucraina alla Russia non sia nell’interesse dell’America. Come candidato Gop alla vicepresidenza, Vance potrebbe riprodurre su di un registro differente il mantra che i trumpisti ripetono da un decennio a questa parte. Ovvero, la fiera opposizione al libero commercio e alla globalizzazione (ma Joe Biden ha assunto lo stesso atteggiamento durante il suo mandato) responsabile, a causa delle delocalizzazioni industrial-produttive, di quella Rust Belt industriale americana, che ha visto la perdita di molti milioni di posti di lavoro tra i Blue collar, operai che una volta votavano in massa per i democratici e ora fanno il tifo per Trump.
Vance è convinto sostenitore che l’Europa debba aumentare la spesa per la propria difesa (ma Barack Obama diceva la stessa cosa), perché l’America ha ben altro avversario globale (la Cina) con cui competere: strategia alla quale anche l’Europa dovrebbe dare il suo bel contributo. A proposito: nel prossimo summit europeo del 17 ottobre, la Ue dovrebbe decidere se ricorrere a un finanziamento comune di alcune centinaia di miliardi di euro (la Francia è favorevole, mentre la Germania resta scettica) per la creazione di una vera e propria difesa europea. Basterà per questo lo spettro di un successo a novembre prossimo del duo Trump-Vance per superare le resistenze sparagnine dei “27”?
di Maurizio Guaitoli