La scelta poco coraggiosa di Kamala

mercoledì 7 agosto 2024


Come da programma, martedì mattina Kamala Harris ha annunciato il suo running mate, il compagno di corsa che sarà il suo vicepresidente in caso di vittoria alle elezioni presidenziali del 5 novembre. Il prescelto è Tim Walz, 60 anni come Harris, governatore del Minnesota al secondo mandato e in precedenza membro della Camera dei rappresentanti per ben 12 anni (2007/2019). Insomma, quell’usato sicuro che tranquillizza la dirigenza Dem è stato posto a fianco di una candidata alla presidenza che, tutto sommato, non ha grande esperienza politica. Più che una scelta personale di Kamala, infatti, quello di Tim Walz è stato il profilo che la base democratica del partito, a cominciare dai soliti Barack Obama e Nancy Pelosi, ha vivamente caldeggiato nel rush finale che ha portato alla decisione.

Secondo un retroscena riportato dall’informatissimo sito Politico.com e poi ripreso in maniera bipartisan sia dalla Cnn che da Fox News, durante lo scorso fine settimana pare che Kamala Harris abbia avuto diversi contatti telefonici con Obama, sia per ragguagliarlo sugli incontri che stava tenendo con i vari candidati arrivati all’ultimo miglio prima della scelta finale (si dice che quello con il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, sia stato abbastanza turbolento) sia per chiedere consigli. L’ex presidente avrebbe sponsorizzato la candidatura del governatore del Minnesota per vari motivi: è un uomo di esperienza sia legislativa che esecutiva, ha origini rurali e anche un certo appeal per l’America bianca del Mid-West che bilanciano le origini californiane, multietniche e urbane della Harris.

Il buon padre nobile Barack pare le abbia ricordato l’analogo percorso di riflessione che lo portò, nel 2008, a scegliere Joe Biden come vicepresidente. Insomma, una questione di pesi e contrappesi che però non rispecchia del tutto i termini di questa decisione. Non è un mistero, infatti, che la prima scelta di Kamala Harris fosse quella di Josh Shapiro, e per diverse ragioni. Innanzitutto Shapiro è uno dei governatori più amati d’America, poi è abbastanza giovane, ha 51 anni, e la candidata democratica sa bene che pur non avendo gli 81 di Biden né i 78 di Trump lei stessa ne ha 60 e avrebbe preferito usare la tecnica del rivale repubblicano, che si è messo a fianco un quarantenne. Non solo, Shapiro guida risolutamente uno Stato, la Pennsylvania, tradizionalmente in bilico e che tutti gli analisti ritengono essere lo snodo cruciale di queste bizzarre elezioni 2024.

A giocare contro di lui sono però state le dichiarazioni durissime sull’antisemitismo nei campus universitari americani durante le proteste pro-Gaza ed il fatto che lui stesso sia ebreo, in un partito che si sta spostando ogni giorno che passa di più su posizioni filo-palestinesi. Oltre a questo, Shapiro è considerato da molti un politico con un ego abbastanza smisurato, forse non esattamente in grado di essere un passo indietro a nessuno, men che meno di fare il numero due di una candidata che nonostante stia momentaneamente godendo di una luna di miele mediatica, alla prova dei fatti avrebbe rischiato di essere oscurata dal giovane rampante governatore della Pennsylvania.

C’era poi anche un altro protagonista nella terna dei finalisti che la Harris ha incontrato lo scorso fine settimana: il senatore dell’Arizona Mark Kelly. Anche la sua sarebbe stata una scelta intelligente se il ragionamento fosse stato quello di un uomo rappresentativo di uno stato in bilico. L’Arizona, con i sui “preziosissimi” undici grandi elettori, è sempre stato conquistato dai repubblicani (eccezion fatta per le presidenziali del 2020, con un risultato contestato da Trump per mesi), pure nel 2008 da John McCain e nel 2012 da Mitt Romney, che furono entrambi travolti a livello nazionale da Barack Obama. La scelta di Tim Walz giunge quindi piuttosto inaspettata in un quadro politico di generale parità, e tutti gli attori in campo sanno che la vittoria verrà determinata dalla conquista di due o tre Stati e probabilmente per poche decine di migliaia di voti. Bisogna infatti ricordare che il Minnesota, lo Stato che il candidato vicepresidente di Harris governa dal 2019, è storicamente una delle roccaforti democratiche date per conquistate in partenza dal partito dell’asinello.

Solo per fare un esempio: nella trionfale rielezione di Ronald Reagan del 1984, quelle in cui il presidente repubblicano raggiunse la maggioranza più ampia di grandi elettori della storia americana, l’inquilino uscente (e rientrante) della Casa Bianca vinse 49 Stati su 50: l’unico conquistato dai democratici di Mondale fu proprio il Minnesota. Qui, peraltro, Walz è stato eletto addirittura da un’alleanza tra democratici e socialisti, che in questo Stato hanno visto la loro genesi nel 1973. La scelta di Tim Walz è quindi incardinata in una valutazione del tutto interna al partito democratico ed è stata compiuta più per sedare la base pro-Palestina, composta prevalentemente da un elettorato giovane, che per un mero calcolo elettorale.

Ma la domanda che molti analisti si pongono a questo punto è: questa scelta, sarà vincente? Ovviamente al momento non è dato sapere, come ho poco sopra ricordato la campagna elettorale di Kamala Harris sta vivendo una luna di miele motivata sia dal cambio in corsa dopo il passo indietro di Biden così tanto auspicato, sia perché il mainstream mediatico filo-democratico sta pompando al massimo quella che fino a pochi mesi fa era considerata una vicepresidente inetta e poco amata e che oggi viene dipinta come la “grande novità” e la “grande opportunità” per il  futuro americano. A ritenere però che la scelta del governatore del Minnesota sia stata “priva di coraggio” e una “occasione mancata” è il politologo tedesco-americano della John Hopkins University, Yascha Mounk, esperto di populismo e identità politica. Secondo Mounk, Walz è “una figura interessante, che rappresenta la classe media e non è l’estremista che molti dipingono”, ma “non la ritengo la scelta migliore in termini di efficacia”.

Per l’autore di best-seller come Popolo vs Democrazia e Trappola Identitaria, il candidato democratico alla vicepresidenza scelto da Harris ha tre debolezze nel suo curriculum politico recente: “la gestione del Covid nel suo Stato, disastrosa e criticata, la richiesta tardiva di intervento della Guardia Nazionale dopo la morte di George Floyd e un’apertura troppo radicale al cambio di genere anche per i minori”. Queste puntuali osservazioni di Mounk, riprese anche da molti altri analisti e già spese nei primi commenti da diversi avversari repubblicani, mi obbligano a rievocare i primi due fatti da lui citati e che potrebbero, e quasi certamente lo faranno, mettere in seria difficoltà Walz anche in vista dei dibattiti con il suo avversario candidato alla vicepresidenza per i Repubblicani, J.D. Vance, che dal punto di vista dialettico è tutt’altro che uno sprovveduto.

Durante la Pandemia il governatore del Minnesota assunse una linea durissima sul lockdown, un provvedimento notoriamente poco popolare in America, sigillando lo Stato in maniera simile a quanto accaduto qui da noi in Italia e in generale in Europa. Il risultato fu un crollo vertiginoso dell’Economia, un’impennata della disoccupazione senza precedenti e un fortissimo malumore nei cittadini. Non solo, in Minnesota avvenne anche la più grande frode di fondi statali legati al Covid di tutti gli Stati Uniti: Tim Walz, in quell’occasione, approvò la c.d. “paga da eroe”, 500 milioni di dollari destinati ai “lavoratori in prima linea” che nonostante il lockdown dovevano essere sul campo (infermieri, militari ecc…) ma fu presto reso noto che a beneficiarne furono persone non idonee se non addirittura decedute.

Yascha Mounk ricorda poi anche un altro episodio di cui il governatore Walz si è reso protagonista e riguarda ciò che avvenne dopo l’uccisione di George Floyd e che fece scoppiare l’ondata di proteste del movimento Black Lives Matter. Quando, dopo la morte di Floyd, il Minnesota fu sconvolto dalle sommosse popolari di Minneapolis, Walz diede ordine alla polizia di abbandonare una caserma che poi fu devastata dai manifestanti e decise di rinviare al giorno seguente l’intervento della Guardia Nazionale, addossando la colpa all’amministrazione cittadina asserendo che questa non avesse prodotto in tempo la documentazione necessaria.

In quella stessa occasione, la figlia del governatore divulgò sui social media i piani di schieramento della Guardia, in modo che i rivoltosi sapessero quanto tempo avevano a disposizione per saccheggiare la città impunemente. Se Minneapolis divenne per 48h un campo di battaglia lo si deve alle scelte di Walz. C’è infine la questione legata al cambio di sesso nel suo Stato, una serie di provvedimenti legislativi ritenuti tra i più radicali degli Stati Uniti. Il governatore del Minnesota ha, per esempio, emanato una legge che consente l’accesso alla c.d. “chirurgia transgender” anche ai minorenni, riconducendola sotto l’ampio ombrello dell’assistenza sanitaria a carico dello Stato. Insomma, il ticket che sfida l’accoppiata repubblicana Trump-Vance è senza ombra di dubbio la rappresentazione di una sinistra radicale e socialista unica nella storia delle campagne elettorali presidenziali recenti.

Se Donald Trump saprà mettere da parte la sua spigliata propensione all’insulto personale e focalizzerà la sua offensiva politica su questo, come sul fatto che gli Stati Uniti sono sull’orlo di una recessione per la quale l’attuale amministrazione Biden (di cui Harris sarà comunque numero due fino alla fine) ha molte responsabilità, è assai probabile che il team democratico terminerà presto la sua ormai troppo lunga, e per certi versi anche un po' patetica, luna di miele.


di Francesco Capozza