Le vendette bibliche: Corano contro Torah

venerdì 2 agosto 2024


Domanda: è meglio un occhio per un altro occhio (“tit-for-tat”) o la “all-war”, ovvero la guerra totale? Dopo gli omicidi mirati gemellati, in cui sono stati eliminati, nell’ordine, Fuad Shukr, uno dei capi di Hezbollah, ucciso in un raid in Libano, e Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, fatto saltare in un appartamento iraniano superprotetto, rimangono in piedi gli stessi interrogativi di sempre. Ovvero, quanto tempo occorrerà alle loro organizzazioni terroristiche per sostituirli, possibilmente con qualcuno ancora più irriducibile di loro? Se il gesto conta (del tipo: ti elimino quando e dove voglio) come deterrenza generica, è pur vero che la semplice cancellazione di due nemici rischia di rimanere improduttiva sotto il profilo politico e strategico, dato che la vendetta è auto-esaustiva, una volta che si è realizzata. Ma, d’altra parte, il mondo irenico del wokism (per cui non si uccide nemmeno una mosca) è una tipica ipocrisia di un Occidente impotente, vigliacco e inetto, incapace di imporre la sua autorevolezza (inesistente) al resto del mondo, accettando il ritorno della Forza nella regolazione dei rapporti tra Stati e nel confronto militare con milizie e gruppi terroristici sparsi per il mondo. Soprattutto, va colto il principio di fondo che il mainstream insiste a non voler vedere e a nascondere all’opinione pubblica parlando d’altro. Ovvero: chi, in Medio Oriente, se non l’Iran e i suoi satelliti o proxy, come le milizie degli Hezbollah, di Hamas e degli Houti, predica e pratica con fervente ardore il genocidio degli ebrei e la cancellazione di Israele dal sacro suolo dell’Islam?

Ora, come ci si difende da nemici così irriducibili? Trattando su che cosa? Sul principio “mors tua vita mea”, in attesa che Teheran si doti dell’arma nucleare fino a rendere impossibile la neutralizzazione dello Stato islamico khomeinista, l’agente di influenza e il principale destabilizzatore degli equilibri mediorientali e internazionali? Davvero è concepibile che si lasci fabbricare l’atomica a uno Stato terrorista come l’Iran, al di fuori di ogni controllo internazionale, ben sapendo che Teheran non si farà alcuno scrupolo a utilizzarla un giorno non lontano contro il suo arci-nemico ebreo? E si può impedire a quest’ultimo di tagliare anticipatamente questo nodo scorsoio che lo precipiterà nel buio della morte, colpendo preventivamente gli impianti nucleari iraniani destinati alla produzione della bomba? In questo terribile panorama di morte e distruzione reciproca, Haniyeh è un mitico mediatore o il vero assassino del suo popolo, come sostengono i suoi detrattori? E che cosa d’altro pensare di una leadership, come quella di Hamas, rea di aver dilapidato molti miliardi di dollari di aiuti internazionali per costruire i suoi tunnel e acquistare migliaia di tonnellate di armi, invece che di puntare tutte le carte sullo sviluppo economico della Striscia (e della Cisgiordania, per la parte dell’ex Olp) e sul benessere del popolo palestinese? Chi, se non Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh, hanno preso in ostaggio la loro stessa gente, contando sulla over-reaction israeliana dopo il 7 ottobre, ed eliminato fisicamente tutti i propri avversari politici, per istituire una feroce dittatura fondamentalista nel cuore del Medio Oriente? Chi sono costoro, martiri o oppressori? Tutte domande che, come si vede, attendono risposte urgenti, al di fuori dei tatticismi diplomatici.

Ora, qualsiasi uomo onesto capirebbe che la guerra di Gaza, come quella sempre sospesa con Hezbollah, non finirà né con la fine dei suoi capi storici, né tantomeno con il ritorno della Striscia nelle mani di Hamas, perché in questo caso lo scenario del 7 ottobre avrebbe infinite riedizioni per i prossimi cento anni. Dunque, ci sarà il ritiro dell’esercito israeliano quando a Tel Aviv i principali attori mediorientali – e l’Occidente – sapranno garantire confini sicuri e un Governo di Gaza che metta definitivamente fuorigioco la Fratellanza musulmana radicale di Hamas. Pertanto, fino a che questa equazione della minaccia all’esistenza stessa di Israele non verrà diplomaticamente e militarmente meno, resta il pieno diritto dello Stato ebraico di agire anche proattivamente per scongiurare la minaccia letale ai suoi diretti confini. Sta soprattutto agli alleati di Tel Aviv decidere se si va davvero verso una “all-war”, o alla semplice mossa dei pezzi dello scacchiere mediorientale, in cui nessuno rischia alla fine di farsi veramente male, con la distruzione di intere città e di ampie porzioni di territorio nazionale, libanese come palestinese e siriano. Il problema dell’attuazione pratica di strategie complesse, come quella della “escalation-for-de-escalation” (alzare al massimo la tensione, per poi allentarla progressivamente), rimane sempre quello della Legge di Murphy: “Se qualcosa può andar male, lo farà”. Ovvero, “Se un congegno meccanico si rompe, lo farà nel peggior momento possibile”. Tradotto in politica militare, se ne capisce benissimo il senso.

Quindi, siccome lo schema di aumentare la tensione, per poi rilassarla gradualmente una volta raggiunto l’apice, è un gioco con più attori e giocatori, allora è chiaro che al “tit” di uno qualsiasi bisognerà congegnare un “tat” di risposta, tale da minimizzare la sequenza dei colpi al più breve percorso possibile (riducendo quindi il rischio di concatenazione dei passi successivi fino al punto di non ritorno), in modo che tutti gli attori chiudano concordemente la partita, ritenendo di aver ottenuto qualcosa ciascuno. Fino alla prossima partita. Perché nessuno, prevedibilmente, per il prossimo secolo, riuscirà a disinnescare la bomba mediorientale, piazzata molti anni fa dal khomeinismo e dalle sciagurate avventure occidentali, spinte dall’idea folle di “esportare la democrazia” in contesti fortemente ostili a quel tipo di soluzione, per tradizioni e consuetudini millenarie. Bisognerà prima o poi, ripartire dal concetto del Dio unico e del rispetto del credo altrui, magari sgombrando il campo dalla assurda pretesa che esista un “sacro suolo inalienabile”, perché donato da Dio a un determinato popolo eletto.


di Maurizio Guaitoli