lunedì 29 luglio 2024
Recep Tayyip Erdoğan sarebbe determinato a invadere Israele. L’ipotesi clamorosa è emersa in occasione di una convention del suo partito islamista Akp. Il presidente turco è intenzionato a porre fine al conflitto israelo-palestinese. “Abbiamo fatto – ha detto Erdoğan – molta strada con la nostra industria della difesa, con le importazioni e le esportazioni. Fratelli, nessuno può ingannarci: dobbiamo essere molto forti, perché così Israele non sarebbe in grado di fare il casino che fa in Palestina”. Erdoğan ha ribadito che, “come siamo entrati in Karabakh, come siamo entrati in Libia, faremo lo stesso con loro. Non c’è nulla che possa impedirlo. Dobbiamo solo essere forti e poi possiamo fare questi passi? Li faremo”. Il presidente ha rilasciato queste dichiarazioni, diffuse in un video dall’agenzia pubblica turca Anadolu, durante un incontro con i delegati del suo partito nella città nord-orientale di Rize.
La Turchia ha inviato truppe in Libia nel 2020 per difendere il Governo riconosciuto a livello internazionale di Tripoli contro i suoi oppositori nella guerra civile libica. Non è mai intervenuta ufficialmente nel Nagorno-Karabakh, anche se la vittoria militare dell’Azerbaigian sull’enclave abitata da armeni nella guerra del 2020 è dovuta principalmente alla fornitura di veicoli aerei senza pilota di fabbricazione turca. La Turchia, storico alleato di Israele e uno dei suoi principali partner commerciali in Medio Oriente, ha interrotto le relazioni diplomatiche lo scorso ottobre in seguito al conflitto di Gaza e lo scorso aprile ha imposto restrizioni all’esportazione di beni turchi in Israele. In tutti i suoi discorsi Erdoğan sostiene una soluzione al conflitto attraverso la creazione di uno Stato palestinese vicino a Israele sui confini del 1967 e offre la partecipazione della Turchia ai relativi negoziati come “potenza garante”. Nel suo discorso a Rize si è anche difeso dall’accusa di un partito islamista alleato dell’Akp di non aver invitato ad Ankara il leader dell’autorità palestinese, Abū Māzen.
“Abbiamo interrotto tutti gli scambi commerciali con Israele, abbiamo interrotto le relazioni... e ci dicono che dovremmo invitare Abū Māzen a parlare in Parlamento. E chi dice che non lo abbiamo invitato?”, ha chiesto Erdoğan. “Abbiamo invitato Abu Mazen, ma purtroppo non ci ha dato una risposta positiva. D’ora in poi agiremo di conseguenza”, ha detto Erdoğan, che già ieri aveva lasciato intendere che Abū Māzen ‘dovrebbe scusarsi’ con la Turchia per aver rifiutato l’invito. Il ministro degli Esteri Israel Katz risponde alla minaccia del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di invadere Israele, paragonandolo all’ex dittatore iracheno Saddam Hussein, lo scrive il Times of Israel. “Erdoğan sta seguendo la strada di Saddam Hussein e minaccia di attaccare Israele. Dovrebbe solo ricordare cosa è successo lì e come è finita”, scrive Katz su X.
Intanto, l’ufficio di Netanyahu ha annunciato la conclusione della riunione del gabinetto al ministero della Difesa a Tel Aviv. “I membri del gabinetto politico di sicurezza hanno autorizzato il premier Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa, Yoav Gallant, a decidere le modalità e le tempistiche contro l’organizzazione terroristica di Hezbollah”. Israele sta preparando la sua risposta all’attacco mortale dal Libano che a Mjdal Shams sul Golan ha ucciso 12 bambini e adolescenti drusi in un campo di calcio. Una prima reazione militare israeliana, con la tensione ormai alle stelle, c’è stata la notte scorsa ma non è stata sicuramente quella definitiva. A deciderne il momento e l’ampiezza è il Gabinetto di sicurezza politico convocato al complesso della difesa a Tel Aviv dal premier Benyamin Netanyahu appena sbarcato dall’aereo che lo ha riportato dagli Usa. Allo stesso tavolo il ministro della difesa Yoav Gallant e i vertici militari. Fonti diplomatiche hanno dato per “certa” la risposta anche se – hanno aggiunto – si sta lavorando “per limitare l’attacco in termini di dimensioni e luoghi, evitando le grandi città densamente popolate, inclusa Beirut”. Obiettivo è quello di non scatenare – con la contro-reazione degli Hezbollah – una guerra aperta. Intanto il capo di stato maggiore dell’Idf Herzi Halevi ha tenuto “una riunione di valutazione e di approvazione dei piani operativi per il Fronte del nord”. Piani sul tavolo del Gabinetto di sicurezza che stabiliscono le modalità e le zone interessate dall’azione.
Hezbollah sabato ha negato ma anche secondo la Casa Bianca dietro il razzo che ha ucciso in Golan c’è la sua responsabilità. E ora teme la reazione e si sta preparando: secondo fonti della sicurezza libanese ha già sguarnito alcune postazioni chiave del proprio schieramento militare nel sud del Libano e nella parte est della Valle della Bekaa. Mentre anche tutto il Libano è in allerta con una compagnia aerea che ha rinviato a lunedì l’arrivo di sei voli schedulati in serata. E il ministro degli esteri libanese Abdallah Bou Habib avrebbe chiesto agli Usa di fare pressione su Israele per limitare l’attacco.
Frattanto, il mondo intanto si muove per evitare la guerra totale con Washington che “sta lavorando a una soluzione diplomatica lungo la Blue Line” per porre “fine a tutti gli attacchi una volta per tutte e consentire ai cittadini su entrambi i lati del confine di tornare a casa in sicurezza”. Anche l’Italia si è mossa con il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in coordinamento con il ministro della Difesa Guido Crosetto, che sta seguendo l’evoluzione della crisi in contatto con i governi ebraico e libanese, per “evitare un’ulteriore escalation negli scontri militari nella regione. Una fase che potrebbe finire fuori controllo e provocare altri danni e lutti dolorosi in un’area colpita da un conflitto che andrebbe al contrario totalmente disinnescato”.
La notte dopo l’attacco in Golan l’aviazione israeliana – in una prima reazione al missile Falaq-1 di oltre 50 chili di derivazione iraniana – ha colpito una serie di obiettivi terroristici di Hezbollah sia in profondità nel territorio libanese che nel sud del Libano”. “Compresi – ha aggiunto il portavoce militare – i depositi di armi e le infrastrutture terroristiche nelle aree di Chabriha, Borj El Chmali, Beqaa, Kfarkela, Rab El Thalathine, Khiam e Tayr Harfa”. Un raid ampio ma non ancora decisivo. Non si fermano però i lanci di razzi dal Libano, cominciati l’8 ottobre scorso in solidarietà con Hamas.
E mentre a Roma non c’è stata nessuna svolta sull’accordo per la tregua e gli ostaggi nella riunione tra Cia, Mossad, Qatar e 007 egiziani, è tornato a parlare su Telegram il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, il quale ha indetto per il 3 agosto una giornata “nazionale e internazionale di sostegno a Gaza e ai prigionieri” sottolineando “l’importanza e la necessità di un’effettiva partecipazione popolare nazionale, araba, islamica e internazionale, e la continuità di tutte le forme di manifestazioni e marce e la loro continuazione dopo il 3 agosto, finché l’occupazione sionista non sarà costretta a fermare la sua aggressione a Gaza”.
di Ugo Elfer