mercoledì 24 luglio 2024
Quante Rust Belt (“cinture della ruggine”, o vaste aree dismesse di centinaia di ex insediamenti industriali metalmeccanici) esistono nel mondo? Di certo, molte e diversificate, grazie alla globalizzazione e alle delocalizzazioni. Le due più grandi in assoluto, però, si trovano negli Stati Uniti e Russia e, guarda caso, ambedue gli imperi hanno rispolverato misure anti ruggine fai da te. E, in entrambi i casi, per riportare a nuovo le fabbriche si attinge a migliaia di miliardi di denaro pubblico, sotto forma di sussidi statali all’industria. Mosca, in particolare, ha approfittato dell’economia di guerra per riaprire i vecchi impianti e creare molte centinaia di migliaia di nuovi e vecchi (sono stati richiamati al lavoro tecnici esperti già in pensione) posti di lavoro. Gli stipendi medi di un operaio metalmeccanico sono passati da 40mila (450 dollari) a 120mila rubli mensili, favorendo il ritorno in fabbrica di molti di coloro che avevano lasciato il lavoro negli anni Novanta. Di questa rinascita della manifattura, in una Russia che si prepara a lunghi anni di guerra, hanno beneficiato larghe fasce popolari che, dal loro punto di vista, hanno pagato un prezzo molto alto mandando i propri figli al fronte. In buona sostanza, lo sforzo bellico, sostenuto da imponenti commesse di Stato per la fornitura di armi, carburante e divise militari, ha avuto come risultato quello di dopare, con un fiume di denaro, l’economia russa. Al contrario delle aspettative di chi ha puntato sulle sanzioni internazionali per piegare la Russia, si assiste a una fase sorprendente di boom, anziché di recessione.
In base alle stime attuali, il Pil russo dovrebbe crescere di tre punti nel 2024 andando ben oltre le analoghe previsioni per Europa e Stati Uniti. A beneficiarne, come sottolineato, sono le ex regioni industriali come quella della Ciuvascia nella Russia centrale, dove vivono 1,2 milioni di persone e in cui le vecchie industrie sovietiche sono rinate a nuova vita, lavorando su cicli h24 per sostenere lo sforzo di guerra. Molte regioni che soffrivano di sottosviluppo hanno ripreso improvvisamente a crescere, soprattutto nelle aree in cui esistevano siti produttivi dell’industria degli armamenti. Alla fine del 2023, la produzione industriale russa era aumentata del 60 per cento, grazie al fatto che molti impianti sono stati riconvertiti per la produzione di beni destinati all’esercito. Ad esempio, in Ciuvascia si è passati da 6 a 36 insediamenti produttivi, facendo crollare il tasso di disoccupazione al 2,2 per cento. A sostegno dell’economia di guerra sono stati richiamati in servizio operai specializzati ultrasessantenni, dato che si era azzerato l’apprendistato relativo per mancanza di commesse. Ma, ovviamente, non si sfugge alle leggi economiche dell’Helicopter money, per cui se stampi denaro, aumentando esponenzialmente la spesa pubblica per l’acquisto di armamenti e il mantenimento dell’indotto relativo, ottieni come risultato l’aumento indiscriminato dei prezzi e l’iperinflazione.
Prendendo a modello la Ciuvascia, nel 2023 l’inflazione è salita al 7,3 per cento e la spesa alimentare è aumentata ancora più rapidamente fino a 60mila rubli mensili, pari a metà del salario medio di un operaio specializzato. E questa, comunque, rimane una dura lezione per tutti coloro che, all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, avevano puntato le loro carte sulle sanzioni, nella speranza che proprio l’inflazione sarebbe stata la punizione di massa per l’avventurismo di Vladimir Putin. Si sperava, cioè, in una sorta di Weimar russa, che avrebbe contribuito a un’implosione del regime, costringendolo a confrontarsi all’interno con un crescente malcontento popolare per “il frigo vuoto e il portafogli più leggero”, che avrebbe messo in secondo piano la propaganda mediatica del Cremlino sulla guerra patriottica. La presunzione occidentale non ha così fatto i conti con l’abilità di un regime totalitario, ricchissimo di materie prime (nonché di riserve auree e valutarie), che non ha avuto remore nel riesumare l’uso della forza contro i suoi nemici esterni, violando senza drammi il diritto internazionale. Un regime abilissimo, per di più, nel ricercare le solidarietà giuste nell’immenso continente del Global South, nemico dichiarato dei così detti valori occidentali e del wokismo. Oggi, almeno 2,5 milioni di lavoratori russi sono impiegati nel settore della difesa e nelle industrie dell’indotto, come quello tessile, necessarie a sostenere lo sforzo bellico di Mosca. Quelle famiglie che hanno visto inviare al fronte un milione di loro uomini hanno beneficiato, come compensazione, del notevole aumento dei salari dei propri soldati e delle indennizzi versate dal Governo in sussidi e pensioni, per coloro che sono stati uccisi o feriti.
E questi effetti positivi nel bilancio delle famiglie si sono fatti sentire in particolar modo nelle aree più depresse, in cui il reclutamento di militari è da sempre più alto che in quelle urbanizzate. Anche se, in questo caso, gli economisti ritengono che questo tipo di vantaggio economico per i ceti meno abbienti sia destinato a evaporare nel medio-lungo termine. Infatti, il reddito aggiuntivo creato da questi trasferimenti ad hoc tende a essere immediatamente consumato sul posto, per l’acquisto di beni voluttuari come automobili e televisori di ultimo modello. Se è vero che, al momento, regioni come la Ciuvascia hanno fatto un consistente balzo in avanti con la crescita del Pil regionale sostenuto dalla spesa militare statale, sussiste però il fatto che questa crescita drogata partiva da un livello iniziale molto basso di reddito medio, per cui le ricadute positive della guerra sono destinate a esaurirsi rapidamente con la fine del conflitto in Ucraina. Già: ma quanto dovremo aspettare per questo?
di Maurizio Guaitoli