Le parole di Trump, la (ormai inevitabile) caduta di Biden

venerdì 19 luglio 2024


L’attesa è finita, Donald Trump ha parlato. C’era grande suspense, e anche una certa curiosità, per il discorso alla Convention repubblicana di Milwaukee dell’ex presidente degli Stati Uniti scampato miracolosamente sabato scorso ai colpi di fucile di Thomas Matthew Crooks. Ieri sera tutti gli sguardi, tutti i teleobiettivi, tutta la stampa mondiale erano puntati su quel palco, e quando il tycoon ha iniziato a parlare, dopo una valanga di applausi e lacrime di molti supporter in sala, è calato il silenzio. Presente, questa volta, la famiglia al gran completo, e non poteva che essere così. C’era ovviamente l’ex e probabile futura first lady Melania (accolta con una standing ovation dalla platea) e c’erano anche i due “defilati” di questa seconda campagna elettorale: Ivanka Trump e suo marito Jared Kushner. I volti della coppia, a dire il vero, sembravano pietrificati. Pochi sorrisi, sguardo fisso nel vuoto, applausi di circostanza, segno evidente che, comunque vada, non avranno più in mano il potere di cui godettero entrambi durante il primo mandato di The Donald.

I nuovi volti di questa campagna e della futura presidenza sono infatti lì, in prima fila, con gli occhi lucidi: il timone della nave da guerra lanciata al massimo dei motori verso il voto è ora nelle mani di Donald Jr, di Eric con sua moglie Lara e del giovane candidato alla vicepresidenza, J.D. Vance. Il discorso di Trump, per sua stessa ammissione, non è però quello che avrebbe voluto pronunciare. Il tentativo di assassinarlo proprio a ridosso della Convention ha ovviamente preso il sopravvento e proprio per questo molti analisti vaticinavano un discorso ecumenico, conciliante, un’appello all’unità del Paese. Almeno in parte è stato così – il nome di Joe Biden pronunciato solo una volta per ricordare i danni della sua amministrazione – ma Trump non poteva certamente che fare Trump. Il tycoon ha iniziato con un dettagliato racconto (ma ha tenuto a precisare che questa sarebbe stata la prima e l’ultima volta che avrebbe parlato dell’argomento, e vedremo se sarà effettivamente così) delle sue sensazioni personali subito prima e subito dopo l’attentato di sabato, diversi minuti che hanno tenuto incollati gli sguardi commossi dei delegati repubblicani al volto dell’ex presidente. Trump ha più volte ricordato che è solo grazie alla provvidenza e all’aiuto di Dio che non è morto. La fede in Dio, d’altronde, è stato un tema ricorrente in tutti gli interventi che si sono succeduti nei giorni scorsi, quello di Marco Rubio è sembrato addirittura un sermone pronunciato in una affollatissima chiesa.

Più volte Trump ha sottolineato che se non fosse stata la mano di Dio a salvarlo non sarebbe salito su quel palco e mentre pronunciava queste parole la folla si è sciolta in un applauso e nelle lacrime sincere di chi crede seriamente di avere di fronte il Messia fatto uomo. Un passaggio di questa parentesi sull’attentato ha però decisamente colpito chi scrive, quello su come il Secret service ha gestito la drammatica situazione di Butler. Personalmente, e non sono il solo, non mi aspettavo che Trump elogiasse convintamente gli agenti che poi lo hanno portato in salvo sul Suv blindato (dopo svariati minuti di attesa però) parcheggiato sotto al palco del comizio. In America in questi giorni il dibattito su com’è stata gestita l’intera situazione dalle forze dell’ordine, e specialmente dal Secret service che ha il compito di proteggere i vertici istituzionali e gli ex presidenti, è molto acceso. La stessa testa della direttrice, Kimberly Cheatle, è stata chiesta a gran voce da molti esponenti repubblicani ma anche da svariati analisti intervenuti sui media.

Invece Trump, con eleganza e, bisogna riconoscerglielo, alto senso dello Stato, ha difeso l’operato degli agenti a cui era affidata la sua protezione, ringraziandoli e sottolineando quanto loro stessi abbiano rischiato la vita, perché quando gli sono saltati addosso per proteggerlo con i loro corpi l’assassino non era stato ancora neutralizzato. Conclusa questa drammatica e commovente parentesi, Trump è poi entrato nel vivo del suo speech, snocciolando alcuni punti del suo programma, quelli che vuole realizzare subito dopo aver giurato il prossimo gennaio. L’impegno del candidato del Grand old party è innanzitutto quello di riportare “rapidamente” la pace nel mondo, dall’Ucraina (oggi ha peraltro in agenda una telefonata con Volodymyr Zelensky) a Gaza, con la minaccia ad Hamas che “pagherà un caro prezzo se non libera i prigionieri”.

Poi, la promessa che il primo giorno del suo insediamento allargherà le trivellazioni petrolifere e chiuderà definitivamente il confine con il Messico, dove completerà il muro. A seguire, la “più grande deportazione di immigrati clandestini della storia del Paese” e un altro, concreto, taglio delle tasse. Sono questi i punti principali del discorso di accettazione “con fede, devozione e orgoglio” da parte di Trump, che ha anche ricordato come questa sia la terza volta (fatto estremamente raro nella storia americana) che il partito repubblicano lo onora della nomination. Come accennavo poco sopra, Biden è stato citato una sola volta, mentre non sono mancate frecciatine sia a Kamala Harris che a Nancy Pelosi, l’ex speaker della Camera che è ancora oggi una delle figure più potenti al vertice del partito democratico.

Il motivo di questa strategia dialettica è ormai evidente: Trump è consapevole che difficilmente sarà Joe Biden il suo vero sfidante il prossimo 5 novembre. Ed in effetti nelle ultime ore “qualcosa si è rotto” anche nella cerchia ristretta dei collaboratori più fidati del presidente in carica, la resa sembra sempre più vicina. Sia il New York Times che il Washington Post oggi scrivono di come il presidente, in isolamento nella sua casa in Delaware con il Covid, sia davvero ad un passo dal ritiro, pressato dai sempre più accorati appalli a farsi da parte per il bene del partito e dai sondaggi che sono per lui ormai catastrofici. Quello che più allarma i vertici dem non è perdere la Casa Bianca, cosa ormai data quasi per scontata, ma essere travolti da una valanga repubblicana che farebbe perdere il controllo anche del Senato, oggi in mano democratica. Che la sconfitta sia ormai nell’aria lo rivelano d’altronde i numeri usciti nelle ultime ore, i primi dopo l’attentato a Trump di sabato scorso: per il sondaggio di Cbs News/YouGov il tycoon sarebbe ora ben 5 punti sopra Biden, 52 per cento a 47 per cento , e anche contro Kamala Harris l’ex presidente vincerebbe 51 per cento a 48 per cento.

Se il dato nazionale a volte poco conta – è accaduto spesso che un candidato perdesse pur avendo raccolto più voti popolari – quello che più sta sconvolgendo i democratici nelle ultime ore è il risultato dei sondaggi mirati agli Stati chiave, quelli che davvero decidono il vincitore delle Elezioni presidenziali. Un report interno commissionato dalla dirigenza democratica alla società Blue rose research e rivelato dal Wall Street Journal, mostra che Biden ha ormai perso tutti gli Stati in bilico, ma che è indietro anche in New Hampshire, Minnesota, New Mexico, Virginia e Maine e sarebbe avanti, del 2,9 per cento, solo nel New Jersey. Non solo, una delle principali preoccupazioni per i democratici è che il popolo americano, compreso il 28 per cento di coloro che hanno votato per Biden nel 2020 e il 52 per cento degli elettori indecisi, crede che i dirigenti del partito democratico abbiano mentito sull’idoneità mentale del presidente. Se tra i dem non si respira l’angoscia di rivedere la valanga rossa del 1984, quando Ronald Reagan fu rieletto per un secondo mandato conquistando tutti gli Stati ad eccezione del Minnesota (vinto dallo sfidante democratico Walter Mondale), poco ci manca. I giorni passano, l’offensiva è ormai arrivata al suo culmine, per Biden è arrivato davvero il fine corsa.


di Francesco Capozza