giovedì 18 luglio 2024
Mercoledì sera, di fronte ai 2429 delegati della Convention repubblicana di Milwaukee, J.D.Vance ha formalmente accettato la candidatura a vicepresidente degli Stati Uniti offertagli da Donald Trump e già certificata lunedì con un vero e proprio plebiscito. Un atto puramente formale che ripeterà stasera lo stesso Trump, perché oggi invece è il suo giorno. Dopo l’accettazione, Vance ha arringato una platea estasiata dalla sua giovane età, dal suo eloquio forbito ma comprensibile a tutti, dal suo fascino e, cosa non da poco, dalle sue posizioni per certi versi più trumpiane di quelle dello stesso Trump. La giovinezza di Vance ha colpito tutti, anche i soliti giornalisti di sinistra (pure nostrani) che sull’età anagrafica dei politici americani non hanno mai scritto una riga, quanto meno fino alla recente (ben svegliati!) annosa questione del declino fisico dell’ottantunenne Biden.
D’altronde, almeno fino ad oggi, in America il ricambio politico generazionale non è mai stato un tema che ha affascinato troppo né gli elettori, né tanto meno gli eletti; ad interessare di più è sempre stata l’esperienza. A parte alcune eccezioni come John Fitzgerald Kennedy, Bill Clinton e Barack Obama, tutti i presidenti americani sono stati sempre ultracinquantenni e spesso anche ampiamente oltre i sessanta. Così come il Congresso, dove pure siedono − specialmente alla Camera − molti quarantenni, è ancora appannaggio della vecchia gerontocrazia politica i cui esponenti spesso mantengono stretto il proprio seggio per decenni, bloccando di fatto quel ricambio che qualcuno qui da noi tempo fa chiamò volgarmente “rottamazione”. La situazione è ancora più drammatica al Senato, dove alcuni personaggi siedono ininterrottamente da una vita; lo stesso Biden è stato senatore per il Delaware, il suo Stato, dal 1973 a quando assunse la vicepresidenza di Obama nel gennaio 2009. E bisogna ricordare a chi invoca un passo indietro di Sleepy Joe, che la stessa Kamala Harris il prossimo 5 novembre avrà compiuto da qualche giorno 60 anni.
Come ha fatto, quindi, il giovane J.D. Vance ad essere catapultato sul proscenio politico nazionale diventando in poco tempo prima senatore dell’Ohio (alle elezioni di Midterm del 2022) a 37 anni ed oggi, a 40 ancora da compiere, il più giovane probabile numero 2 della storia americana? Chi c’è dietro l’ascesa del millennial con gli occhi blu e “la barba da giovane Lincoln” (copyright Donald Trump, che non ama, eufemismo, gli uomini con la barba tanto che si vocifera di una promessa fattagli dallo stesso Vance di radersi quando sarà vicepresidente)? Della storia personale di J.D. e del suo percorso accademico e lavorativo ho già scritto su questo giornale martedì, come pure ho ricordato l’enorme successo avuto nel 2016 (quando era appena trentaduenne!) con il suo libro Hillbilly Elegy, poi divenuto anche un film prodotto da Netflix. Oggi vorrei invece analizzare chi sono quelle figure, quegli sponsor che hanno avvicinato Vance a Trump, convincendo quest’ultimo non solo a perdonare il giovane repubblicano per le parole di disprezzo pronunciate in passato nei suoi confronti, ma addirittura ad affiancarselo oggi nella corsa per la riconquista della Casa Bianca e, molto probabilmente, ad affidargli il compito di continuare il percorso per altri otto anni alla fine del (probabile) secondo ed ultimo mandato dell’ex presidente. Dell’accerchiamento di The Donald − che è arrivato persino a dire che “i convertiti sono quelli che poi si rivelano i più leali” − sono stati protagonisti due gruppi di pressione a cui Trump non ha potuto dire di no: grandi multimiliardari della tecnologia (settore in cui Vance ha lavorato ed ha fatto rapidamente carriera e quattrini) e i due figli maschi maggiori, Donald Jr ed Eric, a cui va aggiunta una donna: Lara Trump, moglie di Eric. Ma andiamo con ordine.
Ho già raccontato martedì della grande influenza che ha avuto sulla carriera di Vance l’imprenditore tecnologico Peter Thiel, l’inventore di PayPal che da anni investe in nuove tecnologie e social network. Thiel è in effetti il vero padrino politico di J.D. Vance, lo ha preso da tempo sotto la sua ala protettrice e gli ha completamente finanziato la campagna elettorale del 2022 per la conquista del seggio senatoriale dell’Ohio: in quell’occasione Thiel staccò un assegno da quindici milioni di dollari. Già nel 2021 il magnate della tecnologia aveva voluto riavvicinare J.D. a Trump, con il quale lo stesso Thiel non era in rapporti idilliaci ma aveva capito fin da subito che senza l’appoggio dell’ex presidente il suo protetto non avrebbe avuto grandi chance di vittoria né di carriera futura. Il piano di Thiel funzionò alla perfezione: Trump si convinse dell’abiura agli insulti passati ricevuti da Vance e dette il suo pieno endorsement per la corsa alla conquista del seggio senatoriale. Da allora Peter Thiel ha continuato a lavorare sottotraccia all’ascesa del suo pupillo, facendolo conoscere ed apprezzare da molti altri grandi del Big Tech a stelle e strisce. Un episodio recente è venuto alla luce grazie ad un retroscena pubblicato ieri dal New York Times in cui si racconta di una cena per la raccolta di fondi a favore di Trump organizzata a San Francisco da una rete di miliardari della tecnologia. La location, racconta il NYT, era l’opulenta villa di Pacific Heights di proprietà di David Sacks, un imprenditore e podcaster che Vance aveva conosciuto tramite, ovviamente, il solito Peter Thiel. Quella sera, durante la cena da 300.000 dollari a persona, Trump, seduto tra Sacks e un altro magnate della tecnologia, Chamath Palihapitiya, ha chiesto in modo informale consiglio su chi scegliere come suo compagno di corsa. Nonostante fosse presente anche un altro aspirante alla vicepresidenza molto quotato, il governatore del North Dakota Doug Burgum, sia Sacks che gli altri invitati hanno dato tutti la stessa risposta: scegli J.D. Vance. Il passo successivo per questo gruppo di miliardari tecnologici era convincere il più importante di tutti loro, quello con il portafoglio illimitato: Elon Musk. Missione evidentemente riuscita dato che Musk (che ancora poche settimane fa aveva rimbalzato l’appello di Trump ad entrare nel team dei suoi finanziatori), appena dato l’annuncio della candidatura di Vance lunedì scorso, ha annunciato che finanzierà la campagna presidenziale repubblicana con 45 milioni di dollari al mese a partire da subito, 180 milioni da qui a novembre che si sommano alla quasi identica cifra di follower che ha sul suo social X: un megafono enorme che nessun altro candidato ha mai avuto a disposizione.
E poi c’è l’altro ascendente che ha influenzato definitivamente la scelta di Trump: la famiglia, anzi, i due figli maschi maggiori. Tutti ricorderanno l’influenza che ebbero nel primo mandato di Trump la figlia Ivanka e suo marito, l’investitore finanziario (amico dei sauditi) Jared Kushner. Furono loro, figlia e genero, a convincere il tycoon a prendere Mike Pence come vicepresidente e com’è andata a finire lo sappiamo tutti. Oggi la situazione è totalmente cambiata, i due principali consiglieri di Trump sono Donald Jr ed Eric. In particolare, Donald Jr è amico di Vance da anni e lo ha presentato tempo fa anche al fratello minore, che lo ha subito apprezzato. Da quel momento, la vicepresidenza per Vance era praticamente cosa fatta. Non è difficile immaginare che i due maschi della dinastia Trump avranno ruoli centrali anche nella futura amministrazione repubblicana come fu al tempo per Ivanka e Kushner, oggi entrambi defilati ed assenti, almeno fino a ieri, dalla convention di Milwaukee. D’altronde, c’è anche una nuova figura femminile in ascesa nel clan: Lara Trump, moglie di Eric. Con lei nessuno sta rimpiangendo la sovraesposizione di Ivanka, anzi: il suo stile elegante e pacato, il suo eloquio rassicurante e, perché no, anche la sua bellezza e la sua caparbietà da quarantunenne in carriera, hanno infervorato ieri la platea in rosa della convention. A Lara toccherà il compito di convincere proprio la base femminile dell’elettorato, solitamente di tendenza più democratica; se ci riuscirà, a novembre il GOP potrebbe vincere a valanga e conquistare la maggioranza anche alla Camera e al Senato. Mentre i repubblicani stanno dimostrando di saper mutare generazione ed investire su una nuova classe dirigente per il futuro, i democratici, ormai avviliti, sono alle prese con il Covid di Biden e la sua granitica voglia di restare in corsa.
di Francesco Capozza