La normalizzazione del terrorismo e dell’odio verso Israele

venerdì 12 luglio 2024


Nove mesi dopo il massacro del 7 ottobre di 1.200 civili per lo più israeliani, orchestrato dall’Iran e perpetrato da Hamas, restano a Gaza 116 ostaggi, almeno 42 dei quali, secondo informazioni dell’esercito israeliano, sono stati uccisi dal movimento fondamentalista islamico, dopo aver loro inflitto inimmaginabili abusi mentali, fisici e sessuali.

L’8 giugno, Israele ha salvato quattro ostaggi in una missione eroica, durante la quale le forze speciali israeliane sono entrate nelle abitazioni private di Gaza dove quattro ostaggi israeliani (tre uomini e una giovane donna) erano tenuti prigionieri da “comuni” gazawi, tra cui un “giornalista” di Al Jazeera.

Ciò che avrebbe dovuto essere salutato in tutto il mondo come una straordinaria operazione di salvataggio che ha finalmente riportato indietro alcuni ostaggi sottraendoli alle loro torture quotidiane è stata invece stigmatizzata come “sproporzionata”, un’ulteriore prova questa di quanto siano diventati normali l’odio verso gli ebrei e il sostegno al terrorismo quando le élites politiche e mediatiche tifano per le organizzazioni terroristiche invece che per gli ostaggi. L’Alto Rappresentante Ue per la Politica estera Josep Borrell ha perfino definito l’operazione di salvataggio di persone che erano state rapite un “bagno di sangue”.

“Le notizie provenienti da Gaza di un altro massacro di civili sono raccapriccianti. Lo condanniamo con la massima fermezza”, ha scritto Borrell su X. ”Il bagno di sangue deve finire immediatamente”.

Se non si vuole un “bagno di sangue”, non si devono prendere persone in ostaggio, nasconderle tra i civili, fare di tutto per impedirne il salvataggio, e poi, se l’operazione va a buon fine, non bisogna mostrare sconcerto per le conseguenze che voi stessi avete causato.

Il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha espresso la sua “condanna” per quella che ha definito la morte di “centinaia di civili palestinesi”, ripetendo meccanicamente, come sempre, e in modo sconsiderato, le cifre fornite da Hamas.

Il generale Onno Eichelsheim, capo di Stato maggiore delle forze armate olandesi, ha dichiarato che Israele, “nella sua operazione di salvataggio degli ostaggi”, ha impiegato “una forza sproporzionata per raggiungere i propri obiettivi”. Il commento ha suscitato immediate critiche da parte di Geert Wilders, leader del Partito per la Libertà. Il politico olandese, su X, ha definito i commenti “incomprensibili, inappropriati, scorretti”.

Come sempre, Hamas, che usa i suoi civili come scudi umani, aveva tenuto gli ostaggi israeliani liberati in abitazioni private all’interno di alti edifici, in una zona di Gaza densamente popolata. A quanto pare, né ai vertici dell’Onu né a quelli dell’Unione europea è mai venuto in mente di tenere conto del fatto che se un’organizzazione terroristica che commette crimini di guerra dà inizio a un conflitto armato non è poi in grado di decidere come tale conflitto venga condotto contro di essa.

C’è stato persino qualcuno che ha affermato che Israele doveva finire sotto processo per aver salvato i propri cittadini. “La Corte penale internazionale dovrebbe indagare sul raid che ha preceduto il salvataggio degli ostaggi israeliani”, ha scritto Kenneth Roth, ex direttore esecutivo di Human Rights Watch e attualmente visiting professor presso la Princeton School of Public and International Affairs, il quale, a quanto si dice, nutre una “immorale ossessione contro Israele”.

Roth ha inoltre aggiunto che bisognava porsi delle “domande sulla necessità” dell’operazione. Pertanto, a suo avviso, non è “necessario” salvare gli ebrei che vengono stuprati, lasciati senza cibo e torturati da quasi un anno. Secondo una stima, un terzo dei 120 ostaggi ancora in mano a Hamas a Gaza è morto.

Un conduttore dei notiziari della Bbc, in un’intervista al portavoce israeliano dell’Idf, Jonathan Conricus, ha chiesto con un’espressione seria se, per risparmiare la vita dei “civili” gazawi che tenevano gli ostaggi rinchiusi nelle loro case, Israele avesse avvisato i palestinesi prima di lanciare l’operazione di salvataggio. Conricus, anche lui con un’espressione seria, ha risposto educatamente che un avvertimento avrebbe potuto mettere in pericolo gli ostaggi e rendere più difficile il salvataggio.

È paradossale che in tutto questo le élites politiche e mediatiche abbiano continuato a insistere sul fatto che l’operazione di salvataggio israeliana fosse in qualche modo immorale. Condannando tale operazione, lasciano intendere che massacrare e rapire 240 persone è morale, ed è un’azione che non dovrebbe richiedere una risposta militare.

Nel frattempo, gli ostaggi che sono tornati a casa, quelli che sono stati liberati grazie a un accordo con Hamas e quelli che sono stati salvati, hanno parlato di mancanza di cibo, percosse, stupri, riduzione in schiavitù e di inimmaginabili torture psicologiche. In violazione delle Convenzioni di Ginevra, Hamas ha rifiutato di consentire alla Croce Rossa di verificare le condizioni degli ostaggi. Si può immaginare il perché.

A tutt’oggi, sembra esserci scarso o nessun interesse per il destino o per le condizioni degli ostaggi ancora a Gaza. Piuttosto, c’è la negazione che le atrocità del 7 ottobre siano mai avvenute, a fronte di un’attenzione quasi ossessiva per la sicurezza dei gazawi e per gli aiuti umanitari loro destinati. Quando l’Onu non è in grado di consegnare gli aiuti, la colpa viene addossata a Israele e non alle Nazioni Unite.

Al contempo, la principale condizione posta da Hamas, Iran e Qatar per liberare gli ostaggi, oltre alla liberazione di un numero infinito di terroristi dalle prigioni israeliane, consiste in una “tregua permanente” e in un “completo ritiro israeliano da Gaza”. Il nuovo presunto accordo di Hamas per un cessate il fuoco a quanto pare presenta un grosso ostacolo: il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran chiede ora “garanzie scritte da parte dei mediatori sul fatto che Israele continuerà a negoziare una tregua permanente, una volta che la prima fase della tregua sia entrata in vigore” secondo quanto riferito da un alto funzionario di Hamas.

Sostanzialmente, questa richiesta significa che Hamas e i suoi alleati, l’Iran e il Qatar, vorrebbero scatenare delle guerre e poi far sì che qualcun altro le fermi quando non piace loro come vanno le cose.

Le Nazioni Unite, con in primis il principale istigatore Guterres, ha detto chiaramente che Israele meritava il massacro e doveva aspettarselo. Gli attacchi del 7 ottobre “non sono avvenuti nel vuoto”, ha affermato il Segretario generale dell’Onu, giustificandoli in tal modo.

La Croce Rossa, che non ha più cercato di poter entrare a Gaza e visitare gli ostaggi dopo il loro rapimento, presumibilmente non si cura minimamente della loro sorte, e le famiglie dei rapiti l’hanno citata in giudizio per negligenza.

Le uccisioni, gli stupri, i neonati bruciati vivi e i rapimenti per mano di Hamas, tutte le ragioni per cui Israele è stato costretto a dichiarare guerra ad Hamas, sono passati in secondo piano. Le atrocità del 7 ottobre sono state compresse in una piccola parentesi, taciute in gran parte per mesi dai principali organi di stampa e dalle élites occidentali. Ciò che sembra invece importare a coloro che stabiliscono le agende politiche e quelle mediatiche è usare ancora una volta la guerra tra Hamas e Israele per demonizzare gli ebrei come il popolo più disumano del mondo per voler vivere in pace sulla loro terra storica senza subire massacri quotidiani da parte dell’Iran e dei suoi proxies, quali Hamas, la Jihad Islamica Palestinese, Hezbollah e gli Houthi, che vogliono stringere loro al collo un “anello di fuoco” ossia attaccarli su “sei fronti”, come parte del tentativo dell’Iran di acquisire egemonia in Medio Oriente.

“Israele è un Paese che non ha posto sulla nostra terra”, ha affermato Ghazi Hamad, uno dei principali terroristi di Hamas, in un’intervista all’emittente tv libanese Lbc.

“Dobbiamo rimuovere quel Paese, perché costituisce una catastrofe politica, militare e di sicurezza per la nazione araba e islamica, e deve essere annientato. Non ci vergogniamo di dirlo con la massima forza. Dobbiamo dare una lezione a Israele, e lo faremo ancora e ancora. Al-Aqsa Flood è solo la prima volta, e ce ne sarà una seconda, una terza, una quarta, perché abbiamo la determinazione, la risolutezza, e le capacità di combattere”.

Di recente, un ex membro di spicco del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), Khaled Barakat, ha scritto sul quotidiano libanese Al-Akhbar: “L’estinzione del progetto sionista è solo questione di tempo, grazie alla lotta armata e al jihad in Palestina, Libano e Yemen”.

Le élites occidentali sembrano felici di assisterli in questa lotta.

(*) Tratto dal Gatestone Institute

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Robert Williams (*)