Toriexit

venerdì 5 luglio 2024


In fondo, per commentare la vittoria laburista in Gran Bretagna, non servono mica analisi politiche chissà quanto dense e articolate.

Per cogliere la tendenza elettorale, già da tempo in atto nel Regno Unito, era più che sufficiente praticare un sano empirismo. Si, d’accordo, il ricollocamento ideologico imposto al partito da Keir Starmer, il nuovo leader progressista, ha indubbiamente avuto un suo peso specifico. Ma è anche vero che dopo la fallimentare parentesi di Jeremy Corbyn, foriera all’interno del partito di un processo reazionario e radicale in termini politici e culturali, oltre che di un arretramento sul piano etico, viste le fondate accuse di antisemitismo, una virata verso orizzonti blairiani non era un’opzione, bensì una necessità impellente.

Poi staremo a vedere se anche il nuovo corso labour potrà fregiarsi dell’aggettivo qualificativo “new”. Al momento, sul filo di una logica filosofica e a fronte di un liberalismo tout-court, l’ultima fase laburista pare identificarsi nel concetto di arte platonica, ovverosia la copia della copia rispetto all’originale inteso non come Tony Blair bensì come una certa Margaret Thatcher.

No, l’esito così netto fuoriuscito dalle urne è, senza dubbio, legato al crollo dei Tories. Un partito che in 14 anni ha snocciolato premier come fossero grani di un rosario – Cameron, May, Johnson, Truss, Sunak – senza però trovare mai quella figura in grado di fornire un guizzo politico, un’autorevolezza morale oppure, chessò, un piglio da vero condottiero in una contingenza storica contraddistinta dalla Brexit e dai suoi derivati.

Insomma, il conservatorismo britannico pare continui ad avere il complesso del “figlio di” dove la progenitrice, la mitica Iron Lady, è rimasta sullo sfondo di una recita corale andata come peggio non poteva.


di Luca Proietti Scorsoni