venerdì 5 luglio 2024
Sir Keir Starmer è ufficialmente il nuovo premier della Gran Bretagna. Questa mattina è stato ricevuto da Re Carlo III che, secondo l’antica formula, lo ha incaricato “di formare un governo a suo nome” e si è già recato a prendere possesso della sua nuova residenza da Primo Ministro al numero 10 di Downing Street. In giornata annuncerà la lista dei ministri e ritornerà a Buckingham Palace per la nomina formale del suo Gabinetto da parte del Sovrano. Si chiude così, rapidamente e con un rigido protocollo fatto d’ingranaggi perfetti e secolari, la parabola dei Tory al governo del Regno Unito e comincia, anzi ricomincia, l’era laburista.
La schiacciante vittoria del Labour era ampiamente prevista da tutti i sondaggi e lo stesso premier uscente Rishi Sunak ha svolto una campagna elettorale tutta incentrata a limitare il più possibile i danni piuttosto che sperare in una vittoria che era considerata da tutti (e da lui stesso) un miraggio. Per la verità Sunak, quando ai primi di maggio ha sciolto il Parlamento britannico e indetto nuove elezioni − la scadenza naturale della legislatura era prevista a dicembre e tutti si aspettavano un voto in autunno − aveva spiazzato tutti, si dice anche i suoi più stretti collaboratori. Nelle intenzioni del premier di origini indiane, le elezioni anticipate dovevano limitare l’ulteriore usurarsi della sua immagine e con quel colpo di teatro cercare di rimettere in sesto i cocci, per quanto possibile. I suoi calcoli sono stati inesatti e hanno anzi prodotto un risultato ancor più catastrofico del previsto. L’imponenza della débâcle si misura nei dati agghiaccianti usciti dalle urne ieri sera: i Tory, rispetto alle elezioni del 2019, perdono quasi 20 punti percentuali (oggi 23,7 per cento, cinque anni fa vinsero con il 43,6 per cento) e ben 234 seggi alla Camera dei Comuni. L’entità del disastro è resa ancor più rilevante da un altro dato: hanno perso il seggio ben otto ministri del governo uscente, tra cui i titolari della Giustizia, Alex Chalk, della Difesa, Grant Shapps, il Segretario parlamentare al Tesoro, Simon Hart, il Segretario di Stato per la Scienza, Lucy Frazer, e pure il leader dei Tory alla Camera dei Comuni, Penny Mordaunt. Lo stesso seggio di Rishi Sunak, a spoglio ancora in corso, è in bilico. Un’ecatombe senza precedenti che fa crollare il partito conservatore di Winston Churchill e Margareth Thatcher al suo minimo storico con solo 131 deputati.
A cosa è dovuta questa disfatta? Forse il vento delle destre europee si è fermato prima di attraversare la Manica? La risposta è no, e lo certifica il dato più che soddisfacente raccolto dal terzo incomodo di questa tornata elettorale inglese e cioè Nigel Farage, Mr. Brexit, che con il suo nuovo partito Reform UK, fondato appena pochi mesi fa, ha raggiunto un ragguardevole 14,3 per cento dei consensi erodendo a destra quelli dei conservatori. Se si sommano infatti i dati percentuali del Conservative Party con quelli del movimento di Farage, le due formazioni raggiungono insieme il 38 per cento contro il 33,8 per cento incassato dal Labour. Quest’alleanza delle destre britanniche era però impossibile e soprattutto da parte di Farage c’era una voglia di rivincita personale, la stessa che lo ha portato finalmente ad essere eletto alla Camera dei Comuni dopo ben sette tentativi andati a vuoto. Dall’altra parte, in casa Tory, tutto ciò che è legato alla questione Brexit è considerato oggi quasi un tabù perché è uno dei motivi principali della lenta ed inesorabile perdita di consenso degli ultimi anni. Non che, se potessero, i conservatori tornerebbero indietro, sia chiaro, ma con il senno di poi gestirebbero la questione in modo totalmente differente da come fatto prima da David Cameron e poi, soprattutto, da Theresa May e Boris Johnson, ovvero i tre predecessori (della cometa Liz Truss parleremo tra poco) a cui Rishi Sunak intesta la lenta agonia del partito conservatore in questi anni. L’uscita dall’Ue, che i Tory rivendicano e che anche i laburisti approvano (tant’è che nel programma di Starmer non c’è la minima traccia di un eventuale dietrofront), è stata però senza alcun dubbio il motivo principale dell’inarrestabile innalzamento del debito pubblico, che è passato negli ultimi dieci anni dal 70 al 90 per cento del Pil, e il Regno Unito ha anche sfiorato la bancarotta nel settembre del 2022 quando l’allora neo-premier Truss presentò alle Camere una manovra economica lacrime e sangue da oltre 50 miliardi di sterline e che fu il motivo per cui, dopo nemmeno due mesi dal suo insediamento, dovette dimettersi.
Con questi dati macroeconomici e con la popolazione britannica sempre più fiaccata da un’inflazione galoppante a cui va sommato uno stallo nell’incremento dei salari come non si registrava da almeno un decennio, la campagna elettorale dei laburisti è stata una passeggiata di salute. Il programma elettorale di Keir Stermer è quanto di più vago ed annacquato sia stato scritto in tempi recenti da un candidato alla guida del governo di Sua Maestà e tutti gli analisti inglesi concordano su questo. Ciononostante, il desiderio di cambiamento, di quell’alternanza (esattamente come negli Stati Uniti) che fa della Gran Bretagna il faro della democrazia occidentale era vivo e tangibile da tempo. Un cambiamento che è però facile prevedere non avrà quegli slanci di popolarità che ebbe a suo tempo il New Labour di Tony Blair. Non avrà la forza economica per fare le riforme, come quella del salario minimo varata da Blair nel 1997, e non avrà nemmeno la possibilità di giocarsi la carta dei diritti civili, perché sempre Tony ha introdotto le unioni tra persone dello stesso sesso, l’adozione (nel 2002) da parte delle coppie omosessuali e il riconoscimento giuridico per i transessuali che vogliano cambiare genere (2004). Persino i matrimoni egualitari sono stati già approvati da tempo, per di più da un conservatore come David Cameron. Finiti i festeggiamenti ed accese le luci di Downing Street, a Stermer non resta che mostrare al mondo, ma soprattutto ai sudditi di Sua Maestà, che cosa ha in mente di fare per risanare le casse del Regno e risollevare un’economia in stato comatoso.
di Francesco Capozza