Lo spionaggio è un diritto?

giovedì 27 giugno 2024


Il caso di Julian Assange può essere dibattuto da vari punti di vista, ma una cosa è certa: esso porta alla luce un problema che non riguarda solo la tutela del segreto di Stato, ma è oggi particolarmente rilevante a causa delle nuove tecnologie disponibili. Le ragioni di opportunità del segreto di Stato, riconosciuto dagli ordinamenti giuridici di tutti i Paesi del mondo, sono note. E in fondo decisamente ovvie. Esso garantisce riservatezza a documenti la cui diffusione, nell’attualità, potrebbe promuovere reazioni di vario genere, magari provocando un danno assai superiore alla violazione del diritto di informazione, fermo restando il principio dell’apertura degli archivi dopo un congruo lasso di tempo. Ma è proprio qui il punto critico di una questione alla quale l’azione divulgativa di Assange ha dato un notevole contributo. Il diritto all’informazione è forse da intendersi come assoluto e senza limiti? Al di là della materia militare dei segreti rivelati da Assange, per sua stessa natura assai delicata, in quali altri settori della vita pubblica uno potrebbe frugare, per poi pubblicare o comunque fare uso dei documenti così reperiti invocando il diritto all’informazione?

Come sappiamo, la stessa tutela della privacy, riconosciuta da numerosi ordinamenti, è non raramente violata per varie ragioni, che vanno dalla speculazione politica alla stimolazione dei lettori di quotidiani o riviste senza scrupoli. Ma la tecnologia attuale consente, se impiegata con competenza, molto di più della semplice macchina fotografica del tradizionale paparazzo e, se applicata nei riguardi non solo di singoli individui ma di organizzazioni pubbliche o private, può rivelare decisioni, progetti e problemi gelosamente custoditi per la loro vitale importanza. Per esempio, se qualcuno riuscisse a impossessarsi dei documenti che verbalizzano le decisioni che il Ministero dell’Interno sta per prendere in una certa occasione, sarebbe autorizzato a renderli di pubblico dominio in nome del diritto all’informazione? È poi intuitivo quale danno provocherebbe la divulgazione di documenti diplomatici nel corso di una guerra. Altrettanto, se uno fosse in grado di effettuare il download del progetto di una nuova automobile conservato nel server di una grande azienda del settore. Potrebbe impunemente divulgarlo, sempre in nome del diritto di cui stiamo parlando?

È ovvio che, a seconda dei casi, varie normative sono già presenti in ogni Paese per sanzionare comportamenti del genere che si configurano semplicemente come furti, ma le regole giuridiche esistevano anche nel 2010, quando Assange rese pubblici molte migliaia di documenti del Governo americano, credendo, con goffa ingenuità, di rendere un servizio all’umanità o, quanto meno, di assestare un colpo micidiale alla credibilità degli Usa. Il sostegno corale che una parte dell’opinione pubblica e varie organizzazioni gli hanno riservato potrebbe dunque ripetersi anche nei confronti di altri eroi del diritto di informazione. In nome di questo diritto lo spionaggio dei repubblicani americani, nel 1972, teso a scoprire le strategie elettorali dei democratici, potrebbe oggi ripetersi in nome del diritto degli elettori a scegliere il partito per cui votare disponendo della massima informazione possibile.

Così, un’associazione di consumatori, volendo suggerire ai propri iscritti una banca sicura di cui servirsi, si sentirebbe legittimata ad assumere un hacker per prendere visione di documenti bancari strategici. Altrettanto, chiunque potrebbe tentare legittimamente di entrare in possesso di informazioni sulle postazioni quotidiane della polizia stradale in modo da evitarle e così via. Il fatto è che tutto questo ha già un nome: spionaggio. Un fenomeno che esiste da sempre ma che, oggi, sulla scorta di una malintesa concezione dell’etica pubblica inaugurata con grande sostegno da Assange, minaccia di assumere un accento francamente demagogico assai rischioso.


di Massimo Negrotti