Balcani, la storia si ripete (e l’Europa si volta dall’altra parte)

mercoledì 12 giugno 2024


Sabato scorso a Belgrado il presidente serbo Aleksandar Vučić (nella foto) e il leader della Republika Srpska di Bosnia, Milorad Dodik, hanno organizzato un evento di massa sotto lo slogan Un popolo, un raduno – Serbia e Srpska. Al termine della giornata, i rispettivi Parlamenti hanno adottato una dichiarazione congiunta che rifiuta la recente risoluzione Onu di condanna del massacro di Srebrenica (1995) e riafferma solennemente l’unità di tutto il popolo serbo. La formulazione ricalca quasi alla lettera le consegne con cui Slobodan Milošević e Radovan Karadžić scatenarono la loro guerra di aggressione e sterminio contro i musulmani bosniaci, il più cruento episodio dei conflitti balcanici dei primi anni Novanta: Dove c’è una tomba serba, è Serbia. La Jugoslavia non c’è più e oggi nell’area si guarda all’Europa come realtà presente o ambizione futura. Ma la Serbia e la Bosnia-Erzegovina meritano un discorso a parte, a cominciare dalle figure politiche che pretendono nuovamente di intrecciarne i destini.

Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska, è da quasi un ventennio una figura centrale nella politica bosniaca, grazie a un’agenda nazionalista caratterizzata da forti tendenze secessioniste, volta a consolidare il proprio potere personale all’interno dell’entità serba, riconosciuta ufficialmente dagli accordi di Dayton del 1995 che posero fine alla carneficina. Fin dal suo ritorno al potere come primo ministro nel 2006, Dodik ha lavorato sistematicamente per smantellare le istituzioni centrali della Bosnia-Erzegovina, svincolandosi apertamente dal sistema giudiziario, le forze armate e il sistema fiscale dello Stato. Il suo Governo ha adottato misure per creare istituzioni parallele all’interno della Republika Srpska, attraverso modifiche legali per facilitare i referendum secessionisti e l’istituzione di una commissione elettorale separata. Per Dodik, il generale Ratko Mladić – il boia di Srebrenica – è sempre stato “un eroe” e la sua condanna da parte del Tribunale penale internazionale “un tentativo di creare la leggenda del genocidio in Bosnia”. Aleksandar Vučić, attuale presidente della Serbia, iniziò la sua carriera politica come ultranazionalista e fu ministro dell’informazione di Milošević alla fine degli anni Novanta, durante la Guerra del Kosovo: un periodo segnato da una dura repressione dei media e delle voci dell’opposizione, in linea con lo stile di Governo autoritario del suo padrino politico, il cui regime sarebbe stato abbattuto di lì a poco dalle proteste popolari.

Nonostante una certa ambivalenza nei rapporti con l’Unione europea, Vučić non ha mai preso completamente le distanze dall’eredità di Milošević, spesso elogiato come un grande leader serbo che dimostrò buone intenzioni”, nonostante gli insuccessi finali. Con Vučić l’ideologia della Grande Serbia è tornata sullo scenario politico nazionale, e il suo sostegno alle minoranze serbe in Kosovo – protagoniste di episodi di violenza conclamata contro cittadini e forze dell’ordine di etnia albanese – è stato la causa delle recenti tensioni con il Governo di Pristina. Il delicato equilibrio che ha caratterizzato la sua presidenza negli ultimi anni, tra pragmatismo diplomatico e retorica nazionalista, sembra essersi definitivamente spostato verso quest’ultima, come dimostrano le sempre più effusive manifestazioni di complicità nei confronti della sua testa di ponte in Bosnia ed Erzegovina (la cui presidenza, ricordiamo, è tripartita, in rappresentazione di bosniaci musulmani, croati e serbi).

Dodik e Vučić si incontrano regolarmente per discutere di questioni riguardanti sia la Republika Srpska che la Serbia, per commemorare eventi storici significativi per i serbi e per esprimere posizioni comuni contro gli interventi internazionali che percepiscono come pregiudiziali. Il raduno di massa di sabato scorso rappresenta, però, un salto di qualità importante, soprattutto tenuto conto del precario equilibrio politico-istituzionale che tiene in piedi la Bosnia nata dagli accordi di Dayton. Se da tempo Dodik esprimeva apertamente la sua aspirazione a legami più stretti tra l’entità serbo-bosniaca e la Serbia, la chiamata all’unità del popolo serbo si può interpretare come un riferimento esplicito a un possibile processo di secessione e riunificazione con la percepita madrepatria. È perfino superfluo sottolineare cosa significherebbe un percorso politico di questo genere, alla luce dell’esperienza del recente passato e delle tensioni dell’attuale contesto bellico in Europa. Ma, anche senza scomodare paragoni sinistri con le guerre balcaniche, qualsiasi spinta alla separazione di una parte del territorio nazionale significherebbe la fine dell’entità statale bosniaca e del sogno di Sarajevo di ricongiungersi con l’Europa politica.

Non è certo un caso che Dodik, oltre che a Belgrado, guardi insistentemente verso Mosca. La sua politica estera è strettamente allineata con quella della Russia e, in più occasioni, ha incontrato il presidente Vladimir Putin, ricevendone sostegno per la sua agenda nazionalista. Durante questi vertici, Dodik ha espresso gratitudine per la posizione russa contraria alle sanzioni impostegli da Stati Uniti e Gran Bretagna e, a sua volta, ha difeso la campagna bellica del Cremlino in Ucraina. I Balcani, come ha ripetutamente sottolineato anche Volodymyr Zelensky, sono una pedina essenziale nel programma di destabilizzazione dell’Europa centro-orientale ordito da Mosca. Le dinamiche geopolitiche dell’area, in cui l’interazione tra interessi nazionali ed etnici continua a modellare il panorama regionale, ricorda anche troppo da vicino la vicenda del Donbass, abilmente strumentalizzata dai russi per giustificare le loro mire egemoniche sull’Ucraina. E il regime di Putin è, in più di un aspetto, una riedizione, su scala ampliata, della dittatura rosso-bruna di Slobodan Milošević.

In un simile contesto, le potenze occidentali, impegnate controvoglia su più fronti e in preda a una crisi di identità sempre più dirompente, hanno cercato proprio nella Serbia di Vučić un interlocutore in grado di mediare tra le ambizioni di Mosca e quelle di Banja Luka (l’attuale capitale de facto della Republika Srpska). Purtroppo, come spesso accade, una vetusta concezione della realpolitik ha finito per favorire l’ascesa di leader autoritari e creare le premesse per futuri conflitti. Nel corso della già citata crisi diplomatica tra Serbia e Kosovo, scoppiata a metà dell’anno scorso, il segretario di Stato americano Antony Blinken intervenne attribuendo alle autorità kosovare la responsabilità degli scontri e invitando Pristina a fare marcia indietro. Con questa presa di posizione la Casa Bianca avallò di fatto le tesi di Belgrado, secondo cui le amministrazioni a guida albanese nel nord del Paese non avevano legittimità alcuna, creando un pericoloso precedente e fornendo al Governo serbo un alibi per future provocazioni.

Contro il perseguimento a tutti i costi di una presunta (e illusoria) stabilità, a scapito delle prospettive di democratizzazione dell’area balcanica, avvertiva tempo fa il politologo Jasmin Mujanović. In un pregevole articolo per la rivista New Lines Magazine, l’autore denunciava l’attitudine dell’Occidente a favorire il compromesso con le élites invece della responsabilità, l’illiberalismo rispetto alla democrazia e l’appeasement al posto delle riforme”. L’adunata nazionalista di Belgrado del fine settimana non ha, al momento, suscitato nessuna reazione nelle cancellerie europee, in altre faccende affaccendate. Washington, da parte sua, ha troppi fronti aperti e l’appuntamento elettorale di novembre paralizza qualsiasi iniziativa internazionale dell’Amministrazione Biden. Ma la storia, se lasciata a sé stessa, tende a ripetersi, e non necessariamente come farsa. Dodik ha annunciato che, entro la fine di giugno, offrirà alle sue controparti musulmana e croata un accordo sullo scioglimento pacifico della Bosnia-Erzegovina, che conterrà anche una denuncia degli accordi di pace di Dayton. Il fantasma dei Balcani si aggira di nuovo su un’Europa distratta.


di Enzo Reale