Armenia-Azerbaigian: il dramma dei popoli di confine

mercoledì 29 maggio 2024


In Armenia, domenica 26 maggio, migliaia di manifestanti hanno protestato contro il Governo chiedendo le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan, in seguito alla scelta governativa di cedere agli azeri territori e villaggi ubicati sulla linea di confine con l’Azerbaigian. Nel marzo scorso, l’Esecutivo armeno ha accettato di “consegnare” quattro villaggi come segno dell’impegno per assicurare un accordo di pace. Questi territori, per la cronaca, erano stati conquistati dall’Armenia successivamente al conflitto divampato tra il gennaio del 1992 e il maggio del 1994. Parliamo dei villaggi di Baghanis, Kirants, Voskepar e Berkaber, dove circa centomila armeni si sono visti sfollare forzatamente tramite una azione coordinata ed eseguita dall’esercito; in questa tragica occasione gli abitanti, prima di abbandonare le loro case, in segno di protesta hanno bruciato campi e proprietà.

Questo accordo del Governo di Yerevan con quello di Baku è giunto a conclusione dopo la campagna militare svoltasi tra il settembre e il novembre del 2020, con cui l’Azerbaigian ha preso il controllo del Nagorno-Karabakh, una regione con una maggioranza armena ma che si trova nel territorio azero, centro di una contesa andata avanti per decenni tra i due Paesi. Il 16 maggio scorso, Baku e Yerevan hanno provveduto a ridelineare un’area di 12,7 chilometri di confine per “spostare” il territorio da proprietà dello Stato armeno a quello dell’Azerbaigian. Lunedì 27 maggio la polizia armena ha dichiarato, successivamente alle proteste di domenica, di aver arrestato più di duecento persone che, mosse dal dissenso dell’azione governativa, hanno sbarrato e occupato le strade di Yerevan. Questa manifestazione è stata l’ultima di una lunga serie che, da tempo, troviamo nella città. Protagonisti sono coloro che fanno parte del movimento Tavush per la patria condotto dall’arcivescovo della chiesa armena della diocesi di Tavush (provincia situata a oriente), Bagrat Galstanyan, il quale ha visto restituire all’Azerbaigian dei villaggi della propria regione.

Galastanyan ha dichiarato di essere pronto a dare le dimissioni dal suo ruolo clericale per impegnarsi in politica, con lo scopo di candidarsi a primo ministro, chiedendo che venissero anticipate le elezioni parlamentari, anche se secondo la normativa dello Stato – essendo l’arcivescovo di origini miste, armeno-canadese – non ha possibilità di partecipare alla tornata elettorale nella veste desiderata.

L’arcivescovo descrive questo movimento come una “campagna nazionale di disobbedienza”. La richiesta di dimissioni di Pashinyan, mossa da questo movimento, è incentrata sulla disapprovazione relativa la cessione dei territori di confine, in quanto non garantiscono, come invece dichiarato dal Governo, nessuna garanzia di pace o sicurezza. I territori che sono stati ceduti hanno un’importanza notevole per l’Armenia, in quanto controllano zone verso la Georgia, strade vitali per questo Paese.

In tale contesto geopolitico, tornato ulteriormente alla ribalta dopo la sospetta morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi, vittima di un incidente aereo vicino ai confini azeri il 19 maggio, ci si può chiedere: cosa manca a questa regione per poter raggiungere un accordo di pace, anche se oneroso, per l’Armenia? Dopo l’ultimo conflitto del settembre-novembre 2020, si sono notati pochi sviluppi verso un equilibrio. Si deve considerare il ruolo delle nazioni, Russia e Francia per primi, che in vari modi non hanno contribuito a creare nell’area uno stato di equilibrio. Queste nazioni avrebbero dovuto, oltre che valorizzare l’eroismo dei patrioti armeni, anche dirottare ambizioni e annichilire tensioni. Considerando inoltre che la Turchia, dopo aver armato e sostenuto l’Azerbaigian contro l’Armenia (un ruolo fondamentale lo ha avuto anche Israele per il successo azero), non ha messo particolare impegno per il mantenimento della pace. Ma, come sappiamo, i margini operativi della Turchia rimangano poco chiari in ogni “scacchiere geostrategico” dove è presente. E la “questione” del Nagorno-Karabakh resta l’anello più debole del precario equilibrio della regione caucasica meridionale.


di Domiziana Fabbri