lunedì 29 aprile 2024
La questione Libia attraversa “stati di interesse” variabili nei canali dell’informazione globale. Ciononostante, monitorando le dinamiche diplomatiche che si approcciano verso lo stato nord-orientale africano, è evidente una crescente influenza di Russia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti a scapito degli aspiranti “benefattori” europei. L’ultima manifestazione dell’incombente “tramonto dell’Occidente” in Libia si è palesata quando il capo della missione libica delle Nazioni Unite, il senegalese Abdoulaye Bathily, il 16 aprile ha annunciato le sue dimissioni dall’incarico. Bathily ha chiarito di essersi licenziato a causa della impotenza della Comunità internazionale, che rappresenta in Libia, nell’organizzare e gestire un tracciato di stabilizzazione della regione. Ma soprattutto di non essere in grado di competere con le avance, chiaramente molto apprezzate dai leader di Tripoli e di Bengasi, dei Paesi non occidentali. Infatti, questi Governi operano da tempo per demolire quei precari accordi siglati dalle Nazioni Unite con Tripoli e Bengasi, dopo la fase storico-politica che ha visto la Libia divisa tra gli Esecutivi della Tripolitania e della Cirenaica – il Fezzan gestisce abilmente un suo equilibrio legato alla Cirenaica – e libera dall’anarchia jihadista esplosa dopo la deposizione, di matrice “franco/europea”, di Muammar Gheddafi, avvenuta nel 2011. Quindi, gli appetiti extra-occidentali mostrano una avidità crescente e spavalda e le continue dimissioni degli inviati delle Nazioni Unite in Libia si susseguono con le stesse motivazioni. E senza sosta. Abdoulaye Bathily è il terzo capo dei delegati Onu a Tripoli a lasciare il suo posto. Tra il 2017 e il 2020 il libanese Ghassan Salamé, poi nel 2021 lo slovacco Jan Kubis: tutti hanno fallito nel constatare l’impossibilità di elaborare una soluzione politica in questa storica cuccagna petrolifera offesa dopo la sventurata deposizione di Gheddafi.
Eppure, quali sono le difficoltà principali con cui si scontrano i delegati delle Nazioni Unite per la Libia? Riducendo al minimo, e sintetizzando, le risposte sono almeno due: sul piano geostrategico, è evidente che le Nazioni Unite proferiscano troppe voci, dal suono sgradevole e contrastanti, e hanno troppi interessi che tendono a coltivare orticelli personali. Ciò paralizza qualsiasi iniziativa. L’altro, che ho sottolineato già dal periodo post Gheddafi, è quello di individuare un leader unico per la Libia, con un profilo più simile possibile a quello dell’ex leader, cosa a oggi non voluta dai Paesi europei più impegnati nella regione, che hanno sponsorizzato, e posta troppa fiducia, in Abdul Hamid Mohammed Dbeibah, primo ministro della Tripolitania. In Cirenaica, il Governo della regione è saldamente in mano a un potenziale erede di Gheddafi, il maresciallo Khalifa Haftar, dotato di “leadership naturale”, quindi non costruita, ma che per congiunture varie non gode sufficientemente del gradimento occidentale. Pertanto, questa divisione porta il Paese a essere controllato da una serie di cartelli composti da fazioni armate e predatorie, che ostacolano e bloccano ogni tipo di sviluppo e normalizzazione.
Dopo la “frattura socio-politica” del 2011, lo Stato nordafricano ha subito la rivalità tra Emirati Arabi Uniti e Qatar, anche loro fautori della deposizione di Gheddafi. Ma lo scontro era tra due concetti di nuova Libia: gli Emirati, supportati dall’Egitto prima e successivamente dall’Arabia Saudita, tendevano a un non improvvido progetto di riciclare figure del vecchio regime, ma soprattutto a opporsi al rischio dilagante dei Fratelli Musulmani sponsorizzati ovviamente dal Qatar, che cercavano di promuovere la loro agenda che sbandierava i colori della “rivoluzione”, o meglio della “involuzione”.
Il tutto rende ancora calde le tensioni sulla spaccatura regionale tra le province della Cirenaica e della Tripolitania; una questione non ancora risolta, nonostante il cessate il fuoco che ha congelato la “Battaglia di Tripoli” combattuta tra 2019 ed il 2020. E questo è il fattore basilare dell’attuale instabilità politica e della degradante influenza dell’occidente in Libia. Infatti, questa contesa ha demarcato il livello, spettrale, delle interferenze straniere. Così Mosca attraverso i mercenari Wagner ha sostenuto l’offensiva del maresciallo Khalifa Haftar, definito in verità l’uomo forte dell’Est, contro il Governo marionetta di Tripoli, fortemente influenzato da Ankara che lo ha supportato anche militarmente. La Libia è diventata una “faglia” di attrito tra la Russia e la Turchia, anche dopo il cessate il fuoco dell’ottobre 2020 (anche questo un atto gestito da loro). Da quattro anni i due nuovi “padrini” della Libia si sono spartiti senza tensioni il bottino libico, dove fioriscono traffici di ogni genere. E dove zampilla il petrolio.
Oggi, militarmente, il condominio russo-turco vede la spartizione regionale definita dalla presenza delle forze del Russian Africa Corps – che sostituiranno i mercenari Wagner (nuovo nome ma identico contenuto) – insediate in Cirenaica e nel Fezzan, il tutto sotto il comando di Haftar; mentre militari turchi presiedono la Tripolitania ben accolti da Abdel Hamid Dbeibah. Tuttavia, sotto l’aspetto diplomatico Turchia e Russia hanno più ampio respiro, muovendosi indifferentemente sia in Tripolitania che in Cirenaica. Pertanto, Mosca ha riaperto la sua ambasciata a Tripoli mentre Ankara è in procinto di aprire un consolato a Bengasi, osservando più il business che altro. Come, allo stesso modo, una importante influenza la stanno esercitando gli Emirati Arabi Uniti. E anche in questo caso “l’orchestra del Titanic europeo” continua a suonare, mentre inesorabilmente il “transatlantico” affonda.
di Fabio Marco Fabbri