mercoledì 27 marzo 2024
La fisionomia del mondo jihadista è sicuramente policefala. Tuttavia, se si abbandona il concetto di legare la “logica” agli “eventi”, sostituendolo con il valutare le strategie estemporanee e trasversali all’ispirazione estremista islamica, si potrà focalizzare più utilmente il posizionamento di qualche tessera nel multiforme mosaico del radicalismo religioso.
Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, ovvero l’Isis, dopo aver occupato e governato dal 2013-2014 (califfato) fino al 2017 un’area geografica estesa poco meno di novantamila chilometri quadrati; essersi arricchito con saccheggi di oro, preziosi, e denaro delle banche di Mosul, Racca, Tripoli, Falluja, Tikrit; aver commerciato il petrolio iracheno e siriano con molte nazioni, anche limitrofe, e fatto business anche con il traffico di reperti archeologici mesopotamici, ha subito una parcellizzazione dei suoi affiliati nell’area euro-asiatico-africana. Ma, soprattutto, si sono creati anche migliaia di “disoccupati jihadisti”, che hanno cercato una propria ricollocazione in tutte le organizzazioni radicali di impronta islamista. Così, le formazioni jihadiste come lo Stato islamico nel Grande Sahara – Isgs – o l’Isis-Khorasan, Is-K, attivo nell’Asia orientale e meridionale, e vari gruppi anarcoidi, che all’occasione diventano mercenari di organizzazioni più strutturate, sono diventati i ricettacoli di questi disoccupati terroristi dell’estremismo islamico. Il nome di Stato islamico nel Khorasan è documentato dal 2015. Ed è l’antica denominazione che indicava una regione che comprendeva parte dell’Asia centro-meridionale e dell’Iran.
Il ritorno dei talebani a Kabul, nell’agosto del 2021, aveva contratto l’area operativa dei jihadisti dell’Is-K, che hanno quindi aumentato la loro presenza e le loro azioni anche nei Paesi del nord dell’Afghanistan. Così, l’Asia centro-meridionale è diventata una nuova testa di ponte per l’organizzazione islamista. Come sappiamo, lo Stato islamico nel Khorasan, “filiale afghana” dell’organizzazione jihadista, per rivendicare l’attentato perpetrato il 22 marzo alla periferia di Mosca ha utilizzato la rete di messaggistica Telegram. Ciò non ha sorpreso i servizi di intelligence occidentali, che in vari modi avevano annunciato la possibilità di un’azione sanguinaria in Russia. Il presidente russo Vladimir Putin e i suoi servizi di sicurezza hanno rifiutato in un primo momento, poi “obtorto collo” ammesso, quanto comunicato via “etere” dall’Is-K; infatti, lunedì 25 marzo Putin ha attribuito l’attacco a “islamici radicali”, che poi hanno tentato di fuggire in Ucraina, ponendo la necessità di sapere chi sono stati i mandanti. Comunque, è proprio attraverso il canale Telegram che il gruppo jihadista porta avanti la sua immagine pubblicitaria e gli annunci dei suoi attacchi sempre più micidiali.
A oggi, l’Is-K incarna la strategia di regionalizzazione inquadrata in quella che potremo definire “l’Internazionale jihadista”, espressa ideologicamente dall’Isis; una dottrina che rappresenta il concetto di “rivoluzione permanente”. Un’astrazione che non vuole scomodare la teoria marxista, associata a Lev Trockij, ma che sociologicamente si poggia sulla volontà di apportare cambiamenti socio-politici, che sistematicamente interessano le aggregazioni umane, qualsiasi ideologia cavalchino. Inoltre, questa ristrutturazione, su base rivoluzionaria, è facilitata dall’instabilità dell’area pakistano-afghana. Un rapporto delle Nazioni Unite presentato al Consiglio di sicurezza a luglio del 2021 (ad agosto sono subentrati i talebani), stima che il numero dei combattenti dell’Is-K in Afghanistan fosse di poche migliaia di individui. Con l’arrivo dei talebani, di cui sono nemici acerrimi per una questione di potere, il loro numero è diminuito, ma si è incrementato nell’area centro-meridionale asiatica, anche grazie alla importante pubblicità che suscita una attrattiva tra i vari terroristi in cerca di “bandiera” e lavoro. Lo Zar Putin – già dall’ottobre 2021 – era allertato sulle ambizioni e sui punti di forza dell’Is-K, ma era confortato dalla esperienza acquisita dai suoi soldati in Siria e Iraq. Eppure, è noto da tempo che i capi jihadisti hanno l’obiettivo di estendere la propria influenza, oltreché nei Paesi dell’Asia centro-meridionale, anche nelle regioni russe e russofone. Senza dimenticare i piani di attacco per favorire odio religioso e conflitti etnico-confessionali.
Ma a chi si può appoggiare Putin? Chi sono oggi i nemici giurati degli islamisti dello pseudo Emirato del Khorasan? È molto probabile che il presidente russo migliori i suoi rapporti con i talebani, in tutti i modi, magari con “supporto logistico”. Quindi, contribuire a un rafforzamento dei talebani pakistani? L’Is-k attrae da tempo gli insorti delusi dai talebani e vari gruppi estremisti disseminati a cavallo del confine pakistano-afghano. Come accennato sopra, disoccupati e fuggiaschi che cercano una nuova bandiera anche per “legittimare” il proprio potere su piccole aree locali. Oggi l’Is-K ha stabilito la sua testa di ponte nella zona montuosa di Achin, nella provincia di Nangarhar, un territorio dove il gruppo islamista ha una stabilità, come nella vicina provincia del Konar. Quindi, appoggiare i talebani potrebbe essere una strategia utile per fronteggiare i miliziani dello Stato islamico del Khorasan e magari cacciarli dall’Afghanistan.
Un’ultima considerazione va fatta sul presidente ceceno Ramzan Kadyrov. Il capo della Cecenia è un uomo di punta dell’esercito russo contro l’Ucraina. I ceceni sono musulmani sunniti: dagli anni Sessanta del secolo scorso aderiscono alla corrente radicale salafita. I jihadisti dell’Is-k sono anche salafiti. Resta quindi la domanda di come sia stato possibile un attacco a Mosca, realizzato senza ostacoli. Forse ha un ampio respiro “l’Internazionale jihadista”? E magari la “rivoluzione permanente” affascina?
di Fabio Marco Fabbri