martedì 20 febbraio 2024
Ci sono molte possibili perplessità e riserve che si possono avere sulla politica di Benjamin Netanyahu prima del 7 ottobre 2023. Si potrebbe persino avere l’impressione che abbia portato avanti tutto l’opposto di quello che sarebbe stato giusto, razionale e prudente fare, come cercare d’instaurare rapporti di costruttiva fiducia con l’autorità palestinese, avere un atteggiamento ben più intransigente con certi coloni israeliani in Cisgiordania, adottare più stringenti misure cautelari lungo il confine con Gaza.
Sarebbe in ogni caso un tema troppo complesso per essere discusso qui, dove è invece realisticamente possibile soffermarci sul problema che in questa fase del conflitto tra Hamas e Israele è più urgente affrontare, e che poi a sua volta coincide con ciò che bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di chiedersi: cosa avrebbe dovuto fare un qualsiasi capo di Governo che si fosse trovato in una situazione analoga a quella del premier israeliano, a prescindere da eventuali errori commessi in passato e dalla lungimiranza o miopia della sua precedente politica? Come avrebbe dovuto reagire al ricatto capitale di Hamas, che intende usare il sangue palestinese, come suoi esponenti hanno esplicitamente ammesso, per giustificare il suo tentativo di sopprimere lo Stato ebraico?
Il non porsi questi interrogativi rischia infatti di suggerire delle soluzioni rabberciate e fumose di questa crisi e del lungo conflitto mediorientale, che alla fine risulterebbero fondate su strategie che, invece di ridurre le proporzioni della tragedia in corso e il numero di vittime innocenti, correrebbero il serio rischio d’incrementarne le dimensioni in un futuro non remoto. Ora, a ben vedere, ci sono tre tipi di comportamento che un Governo avrebbe potuto adottare nello scenario immediatamente successivo al 7 ottobre: il primo è quello che il Governo Netanyahu sta in effetti portando avanti con tragica coerenza; il secondo sarebbe potuto consistere in una reazione proporzionata, una specie di punizione ragionevole, per poi risolversi ad intavolare un trattativa con Hamas per arrivare a uno scambio tra prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani e poi tornare in tempi brevi ad una situazione simile a quella precedente il sette ottobre; mentre la terza tipologia di reazione che si poteva scegliere di adottare consisteva nel non reagire, e cioè nell’accettare subito lo scambio tra prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani rafforzando immediatamente le protezioni lungo il confine violato e facendo conoscere nei dettagli al mondo, durante i mesi e gli anni successivi, l’entità e le modalità della strage compiuta di Hamas, al fine, se non altro, di incoraggiare una maggiore solidarietà politica in caso di un ulteriore attacco futuro.
La terza soluzione sarebbe stata quella che avrebbe fatto di gran lunga meno vittime innocenti e che avrebbe probabilmente rafforzato la posizione d’Israele nello scenario geopolitico internazionale, oltre a essere la meno auspicata da Hamas, sebbene potesse assumere, di primo acchito, il sapore di una schiacciante vittoria. La prima, adottata dal Governo israeliano è quella che rischia, invece, di fare il maggior numero di vittime tra i civili di Gaza. E che rischia di configurare la peggior sconfitta politica d’Israele da quando esiste. Ma che crea anche la possibilità oggettiva di non avere più quasi due milioni di persone ai propri confini nella piena disponibilità di un’organizzazione terrorista, che ha come obiettivo fondamentale del proprio statuto la distruzione dello stato d’Israele.
La seconda soluzione, che è poi quella che risulta oggi essere auspicata da molti Governi, anche occidentali, oltre che dall’Onu, avrebbe comunque determinato – e ancora determinerebbe nel caso fosse accolta la richieste di un “cessate il fuoco”, a causa della configurazione militarizzata del territorio di Gaza – un elevato numero di vittime civili, una vittoria sostanziale di Hamas, una sconfitta politica di dimensioni forse più contenute per Israele rispetto alla prima opzione e, infine, il persistere per il futuro di una situazione di grande pericolo e crescente insicurezza per la popolazione israeliana. Calcolati tutti i pro e i contro politici ed etici, e alla luce del minor numero di vittime che avrebbe implicato, la soluzione migliore sarebbe stata la terza, e cioè quella che prevedeva la “non reazione”. Poiché naturalmente in questa ipotesi sarebbero state comunque di fatto incoraggiate le azioni criminali di Hamas sul territorio israeliano, non è da escludere che, in un futuro non remoto, l’opinione pubblica internazionale e la maggior parte dei Governi democratici avrebbero finito col giudicare non più sopportabile la situazione, tanto da avvallare un’offensiva militare in grado di porvi definitivamente fine. Certamente, la seconda soluzione, quella per così dire “intermedia”, o che potremmo definire della “reazione proporzionata”, invece non solo non determinerebbe la scomparsa di Hamas da Gaza, ma avrebbe anche la caratteristica saliente di risultare alla fine una sorta di punizione, o di vendetta più o meno commisurata all’offesa, qualcosa del tipo “occhio per occhio dente per dente”, e non ci pare francamente che la politica, nemmeno nelle circostanze più drammatiche, dovrebbe mai seguire questa logica, perché non porta mai a nessuna soluzione dei conflitti e a nessuna pace duratura.
Per quanto riguarda invece la prima, quella attualmente in corso – che sta ponendo in questi giorni Israele e il mondo di fronte al drammatico dilemma di Rafah, dove la posta in gioco, sia per il numero dei civili coinvolti sia per le ripercussioni internazionali, è altissima e molto pericolosa sotto ogni riguardo – è quella da cui Israele, anche nel caso di una vittoria militare, potrebbe ricevere una sconfitta politica di dimensioni irreversibili ed epocali. Anche queste considerazioni sembrano, quindi, condurre alla conclusione che la soluzione migliore, o almeno quella meno ricca di conseguenze a un tempo tragiche e controproducenti, sarebbe stata la terza. Ma questo epilogo non può esimerci da una domanda cruciale, che è poi quella che avevamo anticipato all’inizio: quale capo di Governo, di qualsiasi Paese democratico, ovvero di un Paese il cui Parlamento fosse in condizione di sfiduciarlo, avrebbe potuto prendere questa decisione di “non reagire” senza essere costretto a rassegnare le dimissioni il giorno dopo? Obiettivamente, è molto difficile immaginare un capo di Governo di un Paese democratico in grado d’intraprendere una simile strategia della “non reazione” senza pagarne a stretto giro le conseguenze politiche. L’unico che nella storia riuscì probabilmente a realizzare una strategia simile fu il generale Michail Kutuzov, ma lui poteva contare sulla fiducia quasi incondizionata di uno Zar plenipotenziario.
Realisticamente, non rimangono quindi che due strategie possibili: quella adottata attualmente dal Governo Netanyahu e la seconda, cioè quella con tutte le sue varianti abbiamo definito “intermedia”, ovvero quella della “reazione proporzionata” che oggi è auspicata dall’Onu, dagli Stati Uniti e anche, almeno a giudicare dalle ultime dichiarazioni del nostro ministro degli Esteri, anche dal Governo italiano, sebbene sia chiaro che l’adozione di questa opzione avrebbe come conseguenza inevitabile la permanenza di Hamas a Gaza e la possibilità per quest’organizzazione terroristica di riorganizzarsi e tornare efficiente nel giro di pochi anni. In questa ipotesi, essendo ormai accertata l’impossibilità di una trattativa seria che porti a una pace duratura tra Hamas e lo Stato ebraico, quest’ultimo dovrebbe rassegnarsi a vivere ancora a lungo in un costante situazione di guerra con un’organizzazione militare e terroristica ai suoi confini, sempre meglio armata dall’Iran e ben finanziata da buona parte del mondo occidentale. In questo scenario, inoltre, la rinuncia a liberare completamente Gaza dalla presenza di Hamas significherebbe che si è inteso infliggere una punizione che ha comportato migliaia di morti, e un fine punitivo e vendicativo di questo tipo sarebbe eticamente ingiustificabile e politicamente controproducente, dato che potrebbe condurre solo a un ulteriore inasprimento della situazione senza nessun reale vantaggio per la ripresa di un realistico processo di pace. Questo, viceversa, potrebbe essere rilanciato se, dopo la cacciata definitiva di Hamas da Gaza, nuove guide politiche su entrambi i fronti, sia su quello israeliano sia su quello dell’Autorità palestinese, si sedessero a un tavolo per riprendere a progettare insieme la coesistenza di due Stati in Medio Oriente.
Inutile nascondersi che, dopo quanto accaduto e ancora potrebbe accadere, una simile ripresa di un dialogo costruttivo sarebbe, almeno all’inizio, lenta e faticosa, ma è comunque l’unico sviluppo che è realistico sperare. Fino a quando Hamas sarà a Gaza, infatti, qualsiasi tipo di pace sarebbe impossibile, perché non ci può essere pace con chi è nato ed esiste semplicemente per sopprimerti. E che usa in modo cinico i propri concittadini come scudi umani per proteggere le sue azioni criminali verso la popolazione dello Stato che vuole sopprimere. Per questo, dopo il 7 ottobre, se c’è stato un “genocidio” premeditato verso il popolo di Gaza questo è stato ordito e realizzato da Hamas: perché le due possibili risposte non irrealistiche a disposizione del Governo israeliano comportavano entrambe migliaia di morti tra i civili. Perché Hamas aveva bisogno proprio di quei morti e perché Israele non poteva non adottare una delle due senza dichiarare la vittoria politica e militare dei terroristi del 7 ottobre, incoraggiandoli così a perpetuare la loro strategia criminale. Anche le responsabilità di quanto sta accadendo in queste settimane può quindi essere attribuita a chi non ha lasciato a Israele nessun’altra soluzione per cercare di liberare gli ostaggi, senza cedere al ricatto di Hamas. E anche la responsabilità di quanto potrebbe accadere domani a Rafah. Quella che poteva costituire l’opzione migliore, sia sotto il profilo etico sia sotto quello politico, ovvero quella del “non reagire”, si è visto infatti che si sarebbe rivelata irrealistica, mentre quella “intermedia”, cui si potrebbe ancora pervenire con il cessate il fuoco e che è tuttora caldeggiata da molti Governi, avrebbe comunque già provocato un numero esorbitante di vittime pur favorendo un ritorno alla situazione ante 7 ottobre, lasciando Hamas ancora padrone di Gaza e dopo aver esacerbato l’odio tra le popolazioni di entrambe le parti. Cedere ora al ricatto di Hamas comporterebbe quindi, a ben vedere, proprio l’adozione del tipo di reazione più pericolosa per Israele e più favorevole per un’organizzazione islamista, terrorista e antisemita la cui deliberata ferocia nei modi di dare la morte e di massacrare donne e bambini è paragonabile solo a quella che caratterizzò i crimini nazisti.
di Gustavo Micheletti